In partenza c'è la Storia con la S maiuscola, anche se è storia che si narra poco. La Storia in questo caso è quella della prima avvocatessa d'Italia: Lidia Poët (1855 - 1949). Raccontiamola ridotta all'osso. Lidia, nata in Valle Germanasca, da una agiata famiglia valdese, venne da sempre incoraggiata agli studi dalla sua famiglia. Si laureò in giurisprudenza il 17 giugno 1881, con una tesi sul diritto di voto per le donne. Nei due anni seguenti fece pratica legale a Pinerolo con l'avvocato (prima deputato e poi senatore del Regno) Cesare Bertea. Superò, con il voto di 45/50, l'esame di abilitazione alla professione e chiese l'iscrizione all'Ordine degli Avvocati di Torino. La richiesta venne osteggiata tra gli altri anche da Desiderato Chiaves, ex ministro dell'Interno. Ma la spuntò. Furono favorevoli all'iscrizione il presidente Saverio Francesco Vegezzi ed altri quattro consiglieri. Precisarono che «a norma delle leggi civili italiane le donne sono cittadini come gli uomini». Il procuratore generale del Regno mise in dubbio la legittimità dell'iscrizione facendo ricorso alla Corte d'Appello di Torino. L'11 novembre 1883 la Corte accolse la richiesta e ordinò la cancellazione dall'albo. Il 28 novembre la combattiva laureata in legge presentò ricorso alla Corte di Cassazione che, però, diede di nuovo ragione alla procura generale, con una sentenza di una misoginia spaventosa. Tanto che moltissimi giornali italiani presero apertamente posizione per la Poët che iniziò a lavorare nello studio del fratello, avvocato. La Poët proseguì la sua battaglia in difesa dei diritti delle donne, pur non condividendo mai i metodi delle suffragette inglesi, e nel 1919 grazie alla legge Sacchi - che abolì l'autorizzazione maritale e consentì alle donne di entrare in molti pubblici uffici - divenne finalmente avvocato.
Insomma, abbastanza per giustificare in pieno il fatto che Netflix abbia deciso di mettere questa avvocatessa, la prima d'Italia, al centro di una serie televisiva: La legge di Lidia Poët. Sei episodi che saranno disponibili, da domani, con la combattiva giurista interpretata da una star emergente come Matilda De Angelis.
Però sullo schermo della vicenda, riassunta sin qui, non vedrete moltissimo, almeno a giudicare dalla prima puntata presentata, ieri, a Torino. C'è una scena mirabile in cui si assiste alla recita della sentenza di radiazione in tutta la sua sesquipedale cretineria (sia dato merito agli sceneggiatori, tra cui Guido Iuculano di averla inserita), c'è una ricostruzione della Torino dell'epoca davvero cesellata nel dettaglio (complimenti al produttore Matteo Rovere e alla regista Letizia Lamartire). Ma la serie è un incrocio tra il giallo storico (con un delitto a puntata), il procedural in costume e il romance. La Poët diventa una avvocatessa detective con guizzi in stile Enola Holmes. Per carità, il prodotto si fa guardare anche volentieri, e certi giochini come inserzioni musicali molto moderne, fanno un po' Sofia Coppola e possono divertire. Però il modernizzante e il «parlare alle donne d'oggi» e «quel che importa era suscitare curiosità sul personaggio» che tanto il pubblico se la va a studiare sono un po' portati all'estremo. Peccato, perché alcuni degli spunti presenti in questo frankenstein di generi sono davvero interessanti, soprattutto l'idea di andare a indagare la condizione femminile, quando davvero la cultura patriarcale poteva tarpare le ali e rovinare vite. È piaciuta di più l'idea di caricare di pathos il personaggio e farlo moderno. In questo la De Angelis è brava, lo rende scoppiettante e seduttivo (a partire da una scena senza veli in partenza di serie, non sia mai che il decollo non sia a razzo), perfetto per un prodotto da esportazione e per un pubblico giovane. Del quale si da per scontato non regga la noia. La De Angelis si è detta, ieri, privilegiata «per essersi potuta avvicinare alla storia e alla caratura di una donna così importante per il femminismo e non solo». E ancora: «Sono felice che venga messa in luce la vicenda di una persona così. Questa serie è sicuramente un pretesto per conoscerla davvero. Il nostro doveva essere necessariamente un prodotto di finzione e di fantasia. Di lei si sapeva poco e io mi sono divertita a lavorare con l'empatia sullo scheletro delle informazioni, volevo creare un'eroina fallibile. Mi interessava puntare sul carattere in una serie sulla disparità di genere».
Poi però è normale che chi conosce un po' la vicenda storca il naso davanti all'indagine in stile Edgar Allan Poe, ma nella Torino di fine Ottocento.
Anche mettere qualche personaggio maschile meno stereotipato (ci fu chi aiutò Lidia, a partire dal padre) non avrebbe guastato. E qui va dato merito a Pier Luigi Pasino di aver reso alla perfezione il fratello di Lidia trasformato in una sorta di Dottor Watson bacchettone, lo umanizza anche solo con lo sguardo.
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