Zorba il greco è forgiato nello stesso metallo degli Achab, dei Gulliver, dei Cyrano, dei Jean Valjan. Una tempra indistruttibile. Il suo simulacro esteriore è fatto di parole stampate nel romanzo. La sua sostanza è quella delle inconsolabili ombre assetate che sempre si affollano intorno a noi, oscurando l’aria. Il nostro cuore è una fossa chiusa colma di sangue, e quelle parvenze vi accorrono, per berne: sanno che non esiste per loro altra fontana di vita, di resurrezione. Assomigliano agli ectoplasmi che nell’Odissea Ulisse attira a sé dal mondo dei morti, con la ciotola del sangue sacrificale, di cui sono golosi.
Solo dopo la sorsata parlano, ridono, singhiozzano. Davanti a tutti, si precipita Zorba, con quelle sue grandi falcate, e spintona gli altri fantasmi, perché sente che oggi è il suo giorno. Noi, lettori delle sue gesta, siamo gli Ulisse di turno. Quindi offriamogli la linfa rossa e calda, che possa rivivere, questo straordinario crapulone, beone, lavoratore instancabile, donnaiolo, cacciatore di vedove, guerriero e nomade macèdone, l’anima più grande, il corpo più saldo, il grido più libero, il canto più assordante mai deflagrati sulle pagine di un libro.
Così ci viene presentato Alexis Zorba, nel «Prologo» del romanzo scritto nel 1943 da Nikos Kazantzakis (Heraklion, Creta, 1887-Friburgo 1957), titano della letteratura neoellenica. Queste pagine introduttive, magnifico antipasto della storia, erano inspiegabilmente escluse dalla versione inglese del 1952 e da quella italiana di Olga Ceretti Borsini, l’unica finora disponibile, che vi si rifaceva. Ha posto rimedio Nicola Crocetti con il suo Zorba il greco (Crocetti Editore, pagg. 383, 15 euro). Crocetti ha lavorato sull’originale, con la calligrafia di chi restaura antiche miniature.
La lingua di Kazantzakis è neogreco con pennellate di dialetto cretese. «Sideròpetra», pietra-ferro, è il calcare, grigia ossatura rocciosa venata di clorite, che fa la terra di Creta ondulata come la pelle a righe di una tigre: ma è una parola locale, sconosciuta ai lessici. Catturarne il significato è filologia e passione, come per fiori e frutti del posto, bevande e pietanze, frasi di gergo e capi di vestiario, vocaboli che esigono ricerche, riscontri. Chi ha tradotto ha compiuto un atto di devozione e risarcimento, ha dato a Zorba le ali per risorgere dalle sue ceneri come una turgida araba fenice. Grazie a questa fatica, Zorba non è più solo il nome che campeggia su migliaia di insegne di locali e ristoranti greci sparsi in tutto il mondo, o la perfetta maschera di Anthony Quinn diretto da Michael Cacoyannis, cretese anche lui, nel film del 1964.
Il greco adesso è qui, tra noi, in noi, come un amico rude e imprevedibile, come l’“Anziano” che insegna ai monaci del monte Athos la vita e il sapere. Il romanzo ci porta a Creta, tra un autunno e una Festa del Lavoro, il primo maggio dell’anno dopo. Un intellettuale, infatuato di Omero, Nietzche, Mallarmé e Buddha, sui cui misteri sta componendo un liberatorio scartafaccio, decide di scrollarsi la polvere delle biblioteche e di azzannare la vita. Affitta una miniera di lignite sull’isola, patria del nonno materno. S’imbarca dal Pireo, all’avventura. E qui, in una bettola, gli si appiccica Zorba, imponendosi come cuoco («so fare certe minestre...») e capocantiere. Il ragazzo («scribacchino», lo bolla Zorba) ha trentacinque anni. È a un punto di non ritorno. O svolta adesso, o sprofonda nel pozzo nero che le vaghe illusioni letterarie chiamano eternità, ma che è più giusto e crudo inquadrare come fallimento.
Zorba può diventare la sua zattera di salvataggio. Il giovane viaggia aggrappato al suo patetico dantino tascabile. Il vecchio, che ha quasi il doppio dei suoi anni, tiene nella sacca un salterio, da cui estrae canzoni buone a far svanire le paure e a incantare le donne. Baffi grigiastri mantecati, occhi da iettatore che terrorizzano i muli e da profeta che indovina il domani nell’osso raschiato di un agnello allo spiedo, cicatrici da partigiano e bandito, mani da minatore, da santone e da perenne amante, passo allampanato da uccello di palude, Zorba ha una pura legge, che trascende i vertici di ogni filosofia: vivere ogni istante come fosse il solo, l’ultimo. Il mondo è per lui una fantasmagoria di miracoli. Vede un ciottolo che rotola dal pendio e «Ci hai fatto caso, padrone», esclama al compagno «i sassi in discesa prendono vita!». Come si fa a non restare presi da questo vigore primigenio? Zorba si trasforma nel primitivo e selvaggio Virgilio che fa da guida a quel suo Dante immaturo e ipersensibile nel paradiso di Creta, con le sue spiagge d’oro sabbioso, il mare indaco che sembra uscire dalla cetra di Omero, attraverso l’inferno della miseria, dell’ignoranza, dei riti ancestrali che includono, sulla soglia della chiesa del villaggio, la mattanza espiatoria di una vedova che ha peccato per amore. In mezzo, c’è il purgatorio della redenzione, per il ragazzo istruito che conosce tutte le parole classiche, ma per cui il mondo reale è tabula rasa. L’ultimo atto, prima dell’addio, è la lezione di «zeimbèkikos», il ballo selvatico dei valorosi. Bisogna danzarlo scalzi, sulla spiaggia deserta, per sentire le pulsazioni della terra. Allora cessa il travisamento della ragione. Zorba parla con il corpo, e il suo volo mitologico ricuce suolo e cielo. Kazantzakis crea Zorba, ma non riesce a farlo morire.
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