E adesso che la Coop affida al cabarettista Paolo Hendel la sua campagna d’autunno, sbarcando sul web con un pugno di clip intitolate «Mercatoni Pravettoni» e rispolverando così il cinico capitalista Carcarlo Pravettoni, quello delle merendine all’asfalto, ha senso contrapporre il Mercato alla Cultura, cioè la Destra alla Sinistra, come da vulgata? Perché di questi paletti si tratta, mentre il Kulturmarket lotta fino all’ultimo carrello per tenere bottega aperta: di recente il premio Oscar Giuseppe Tornatore, uno dei nostri non discutibili maestri di cinema, ha dovuto difendersi dall’accusa d’essersi venduto, solo perché ingaggiato dalla Esselunga per un corto d’autore. «Quando faccio un film lavoro con centinaia di persone alle quali non chiedo mai a che partito sono iscritte o se abbiano tessere politiche», ha dichiarato l’artista siciliano.
Uno del Sud, che da radici di sinistra proviene - chi ha visto Baarìa sa quanto amore lì circoli per il disciolto Pci di Berlinguer e chi conosce la sua pregevole filmografia ritrova uguale mano anche negli spot -,è lapidato dai «compagni» per ragioni moralistiche e un po’ vacue. Sembra assurdo, ma è quanto avviene nell’Italia dei cinecampanili e delle piccole mafie editoriali. E qualcosa di sorprendente e un po’ equivoco ora si abbatte, sempre provenendo dalla Zona Rossa, su un’altra eccellenza del cinema italiano, Paolo Sorrentino.
«Non so cosa significhi esattamente italianità di un prodotto, ma il mio è un film decisamente italiano», è costretto a spiegare l’autore de Il Divo presentando il suo This must be the place, che il 14 ottobre arriverà nelle sale con la potenza distributiva di 300 copie e la magnifica presenza di Sean Penn, star assoluta nel ruolo del rocker messo all’angolo dalla vita, ma pronto a un riscatto personale e universale. «Secondo me un film è italiano se concepito da italiani, pensato e scritto da italiani, diretto da un italiano e fotografato da un italiano», ha proseguito l’artista napoletano con calibrato orgoglio.
Un altro del Sud, come Tornatore, che da radici di sinistra proviene («mi considero di sinistra, se la parola ha ancora un senso»), anche se non ha mai varcato l’uscio di una sezione, e ha dovuto illustrare l’elementare alla Casa del Cinema. Cioè che se si ha qualcosa da dire, lo si può fare da italiani, anzi da europei, allestendo set globali tra Irlanda e Usa, ingaggiando il doppiamente oscarizzato Penn e la candidata agli Oscar Frances McDormand, qui nel ruolo umanissimo della moglie pompiera della rockstar con parrucca e rossetto. E facendo recitare in inglese le battute d’una sceneggiatura molto letteraria, ma priva di bellurie (by Sorrentino e Umberto Contarello) e perciò ficcante, come quando il malinconico Penn/Cheyenne riflette: «Nessuno lavora più, tutti fanno qualcosa di artistico».
Sta di fatto che Sorrentino, nato in Italia, professionalmente si è formato sul cinema Usa più visionario: non a caso ama Terrence Malick e la «testimonianza di libertà» implicita nel suo L’albero della vita. «Malick ride in faccia alla normalizzazione. È un segnale consolante», afferma Sorrentino in un’intervista di Malcom Pagani apparsa su MicroMega. Però i cerimonieri del politicamente corretto restano in agguato, pure in presenza di conclamato talento.
«Se chi comanda la filiera del cinema teme di perdere il filo rosso con il portafogli, bisogna rassicurarlo. Piegando l’omologazione con l’onda delle idee, senza sventolare slogan preistorici», avverte il cineasta che detesta «il piccolo circuito autoriale», lesto a ottenere «l’applauso aprioristico della critica e si ferma lì. È un dramma», dice lui.
Al pari di Marchionne, Sorrentino sfrutta le pari opportunità del mercato globale, senza curarsi dell’apparato: per lui «i critici sono alpini di pianura».
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