La tradizione va salvata: è il fuoco non la cenere

Su "Il Pensiero Storico" alcuni autori, da Latouche a Belardinelli, riflettono sulla memoria collettiva

La tradizione va salvata: è il fuoco non la cenere

Cosa si deve intendere per tradizione e chi è responsabile della sua trasmissione? È più corretto parlarne al singolare (tradizione) o al plurale (tradizioni)? E se fosse corretta la seconda ipotesi, quale sarebbe il loro criterio discriminante: la religione, la nazionalità, la lingua? Infine: la tradizione può sopravvivere all'assedio della modernità?

È questo l'ampio fronte dialettico su cui si concentra l'ultimo numero de Il Pensiero Storico (IPS edizioni, pagg.340) dal titolo Tradizione/tradizioni. La rivista internazionale di storia delle idee diretta da Danilo Breschi propone infatti una serie di interviste a personalità del mondo culturale (da Carlo Altini a Sergio Belardinelli, e poi Russell Berman, Alberto Giovanni Biuso, Franco Buzzi, Danilo Castellano, Hervé A. Cavallera, Luigi Cimmino, Raimondo Cubeddu, Alain de Benoist, Serge Latouche, Gennaro Malgieri, Spartaco Pupo, Rémi Soulié e Marcello Veneziani) le quali, pur tracciando taluni tratti di invariabilità, segnalano al contempo - e senza reticenza alcuna - l'assoluta adesione al processo di secolarizzazione.

Restiamo però ai tratti di invariabilità. Se il termine lo consideriamo al singolare indica il carattere universale, quasi metafisico; al plurale, invece, la declinazione storica e contingente le cui modalità si sviluppano e si consolidano sempre con i medesimi tratti: la necessità della condivisione, l'appartenenza ad una comunità, il bisogno di dare un senso metafisico all'esistenza individuale, delle credenze che legittimino l'autorità del potere. Perdere, come sostiene Biuso, questo complesso di memorie, credenze, costumi, consuetudini e pratiche trasmesse dalle generazioni precedenti che ispirano il nostro comportamento, significa mettersi al pari di quell'individuo a cui l'Alzheimer cancella a poco a poco il proprio nome, la storia, le relazioni che ha vissuto, ed è quindi pronto a perire. Trasmissione e custodia plasmate dall'esperienza, grazie alla quale si defalcano le cose negative da quelle positive, vivificate all'interno di uno sviluppo storico, e senza cristallizzazioni di sorta, sussistendo il pericolo che la reiterazione di modelli e pratiche possa degenerare nel culto dei feticci. Tradizione scriveva Mahler - è custodire il fuoco, non adorare le ceneri.

Belardinelli fa l'esempio dei classici che, nonostante la distanza temporale, si presentano ad ogni nuova generazione come elementi vivi e mai avvinghiati ad un mondo che non esiste più. Tuttavia, è la religione che, interagendo con molti aspetti del vivere civile, si propone come la più potente cinghia di trasmissione della tradizione. Strumento grazie al quale il permanente si fonde al transeunte tanto che le diverse pratiche di cristianesimo maturate in duemila anni di storia finiscono sempre per saldarsi intorno alla figura del Cristo: «Sul piano dei principi scrive Veneziani - la Tradizione è il divenire dell'Essere. Non è puro divenire, perché nel suo mutare c'è un principio d'immutabilità, e non è solo essere, perché comporta sempre un tradere, un fluire e non sono una persistenza». C'è tuttavia anche un fronte di pensatori (Zolla, Eliade, Guénon, Evola, per citarne alcuni) che interpretano la questione in maniera più radicale. Per essi, il problema della tradizione coincide con quello delle origini e dell'Essere, e di una filosofia perenne che viene contraddetta dal processo di secolarizzazione: «La Tradizione scrive Zolla - è la trasmissione dell'idea dell'essere nella sua perfezione massima. Essa è talvolta trasmessa non da uomo a uomo, bensì dall'alto; è una teofania».

Ma è qui che il discorso si complica sia nella versione della contaminazione con la realtà storica che in quella della purezza primigenia e incorruttibile. La globalizzazione ha un aspetto aggressivo nei confronti delle tradizioni culturali dei popoli facendole sopravvivere solo come folklore in un processo di impoverimento della varietà antropologica e simbolica dell'umanità. L'impressione è che, a prescindere dalle singole tradizioni, sia entrata in crisi l'idea stessa di tradizione. La secolarizzazione è infatti il primato della storia sull'eternità. L'accelerazione tecnologica, le relazioni attraverso i social, le sollecitazioni al consumo inteso come espressione di narcisismo individualistico, il ruolo del digitale, non permettono a qualsivoglia idea di tradizione di permanere e incidere dal momento che predomina la dimensione dell'istante.

Ne è riprova la crescente aggressività nei confronti del cristianesimo che, peraltro, appare sempre meno capace di difendersi. Ciò accade, in primo luogo, perché negli anni si è ampliata a dismisura una cultura della espiazione di fronte al male assoluto dilagato nel Novecento. L'Europa cristiana era il luogo fisico dove sono stati generati i totalitarismi, i nazionalismi e gli imperialismi, cosicché la Chiesa si è via via rifugiata in una identità incerta, tonificata da vaghe appartenenze e da un'accettazione acritica del nuovo, avvicinandosi sempre di più a linguaggi e stili della contemporaneità. Come sostiene Breschi, a partire dal concilio Vaticano II, si è poi palesata tutta la forza premonitrice della Chiesa quando, anticipando temi e tendenze che sarebbero dilagati dal'68, ha preso totalmente in carico la parola d'ordine di Giovanni XXIII: «aggiornamento», e quindi dando la stura a una vera e propria rivoluzione antropologica. Non a caso molti sessantottini si dichiararono «figli del Concilio».

La Chiesa ha accettato la sfida della modernità ma si è talmente compenetrata ad essa che ora appare secolarizzata e capace solo di un umanesimo compassionevole.

In fondo, Benedetto XVI si dimette perché, anche all'interno della Chiesa, non si riescono più a contenere le potenze anticristiche e le furie moderniste, per questa via, viene a mancare la prospettiva di qualsivoglia forza catecontica.

Forse, come scrive Sergio Quinzio, la Chiesa, e con essa la Tradizione, dovranno accettare il loro fallimento storico, la loro Croce, per essere pronti a una nuova rinascita.

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