Travaglio? Un pupazzo che recita verbali a pappagallo

La vita è troppo breve per passarla in compagnia di un altro articolo su Marco Travaglio, chiedo scusa a tutti: ma il presunto collega è ormai ridotto a un caso inumano e insomma va così, tocca di nuovo occuparcene anche perché ora il cabarettista del Travaglino dovrà scegliere tra il ricevere una querela (un’altra) o un calcio nel sedere da parte del sottoscritto. Già, perché il noto diffamatore, il Monico Lewinsky di Antonio Di Pietro, sull’Unità di ieri ha sbroccato: dopo una serie di battute scompiscevoli tipiche sue («diffamare Previti è reato impossibile», che sagoma) il tristo individuo ha lamentato che il Giornale, nella persona del sottoscritto, «ha sbattuto la mia sentenza in prima pagina» (il dispositivo, Marco, non la sentenza) e questo, attenzione, «dopo aver nascosto le sue», di sentenze, cioè le mie, le quali corrisponderebbero a «una caterva di processi persi, con abbondanti risarcimenti ai danni dei pm di Mani pulite per le balle diffamatorie che lui rovescia loro addosso da una vita».

Allora, il mio casellario giudiziale, semplicemente, non riporta nessuna condanna penale per querela dei pm di Mani pulite. E neppure per querela di altri magistrati amici suoi. Denunce del pool di Mani pulite ne ho avute diverse, di Antonio Di Pietro addirittura decine: tutte chiuse, vinte, archiviate, prescritte, in rari casi transate (decisione non mia) e comunque senza resipiscenza: non mi sono mai prostrato ai piedi di un querelante come invece fece Travaglio coll’amico Antonio Socci (febbraio 2008) affinché ritirasse la denuncia: «Riconosco di aver ecceduto usando toni e affermazioni ingiuste rispetto alla sua serietà e competenza professionale, e di ciò mi scuso anche pubblicamente con lui» scrisse sull’Unità. Il sottoscritto ebbe, semmai, una denuncia per calunnia da parte del solito Di Pietro (pena sino a sei anni) il quale sosteneva che una serie di miei scritti, a metà degli anni Novanta, avevano originato alcune delle inchieste bresciane che nel 1996 l’avevano costretto a dimettersi dal ministero dei Lavori pubblici. Finì così: il tribunale decise infine il non luogo a procedere (presenti per nove ore Di Pietro e il sottoscritto) dopo aver stabilito che in effetti Di Pietro aveva ragione, gli scritti avevano ispirato parte delle inchieste: ma anziché chiamarlo reato lo chiamarono giornalismo. Può addirittura succedere che siano dei magistrati a sbirciare quello che scrivi tu: e non solo viceversa.

Ancora un episodio, se non dispiace. L’ente turistico di Cortina, nel 2004, cercò di organizzare un dibattito con ospiti Travaglio, Giancarlo Caselli, Piercamillo Davigo e Filippo Facci: ma Davigo disse che con me non voleva dibattere, perché in passato mi aveva querelato. O io o lui. Se fosse mancato Davigo sarebbe mancato anche Caselli, sicché l’ebbe vinta e con il sostegno di Travaglio: «Se fossi un giudice, e un giornalista mi accusasse di crimini inesistenti, forse farei lo stesso», disse secondino. Bene: ma di che querela si trattava?

Ecco la storiella. Davigo, nel 1982, arrestò un avvocato per traffico d’armi e lo tenne dentro per sei mesi. Le conseguenze furono orribili: il fratello dell’avvocato, pure arrestato, uscì di senno e fisicamente fu devastato, perse i capelli e addirittura le ciglia degli occhi: la compagna di questo avvocato, dopo l’arresto, si dileguò; il figlio di questo avvocato, l’unico figlio, si suicidò.

Dieci anni dopo, l’avvocato fu assolto in primo grado e denunciò Davigo, il quale lo controquerelò per calunnia: la notizia, data dal Giornale, fu approfondita dal sottoscritto che fu querelato a sua volta. L’avvocato, intanto, fu assolto anche in Appello: e una sua intervista televisiva, trasmessa da Mediaset e curata ancora dal sottoscritto, fu ancora querelata. La faccenda, per farla breve, si concluse con una piena assoluzione dei querelati: e resta, nell’insieme, una delle storie più schifose cui ho mai assistito in vita mia.

Ma averla raccontata, per Travaglio, corrispondeva invece a raccontare «crimini inesistenti», ciò che meritava la mia esclusione da un pubblico dibattito. È fatto così, Pupazzo Travaglio: sembra uno di quei maialetti dell’autogrill che tu passi e loro ballano, lui invece ti legge un verbale. A pappagallo. A Travaglio.

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