Tre belle cose (da copiare) dei musei Usa

Didascalie viventi, donazioni private e grandi archivi digitali a New York

Tre belle cose  (da copiare) dei musei Usa

Al Guggenheim Musuem di New York non c'è rischio di uscire senza aver capito perché una moto con le corna da bue o un sacco appeso al soffitto siano un'opera d'arte. Infatti, attorno a voi si aggira un uomo, uno in ogni sala, con fare circospetto. Appena trova il momento, vi domanda cortesemente se volete saperne di più su quanto avete appena visto, pensando «non ho capito niente» o anche «ma che cavolo di roba è questa». Se rispondete affermativamente, l'uomo attacca la spiegazione, davvero convincente: di quel sacco dovete considerare la doppia ombra, nella prima si trasforma in un nodo indistricabile, nella seconda in uno stomaco che scarica a terra la tensione. Insomma: il sacco della vita e il modo in cui possiamo affrontarla, abbandonando le scorie negative oppure coltivando la frustrazione e la rabbia. Due-tre minuti e il visitatore si allontana pensando: «Ora ho capito e posso dire a ragion veduta: quest'opera oltre che brutta è anche banale».

È un modo interessante di arricchire la visita e offre anche uno spunto non indifferente: se un'opera d'arte ha bisogno di un interprete per comunicare significa che qualcosa non va. Raffaello incantava con la bellezza e ha messo d'accordo tutti, dai suoi ai nostri contemporanei. Forse non capiremo i messaggi in codice di alcuni quadri di Tintoretto ma questo non vieta di restare a bocca aperta di fronte al Ritrovamento del corpo di san Marco. Vale anche per le opere moderne e contemporanee. Giorgio De Chirico ci fa riflettere sull'essenza delle cose, Lucio Fontana apre squarci sul mistero, Piero Manzoni suscita risate al vetriolo: non hanno bisogno di spiegazioni scritte o viventi. Però fa piacere ascoltare l'uomo-didascalia, che porta una vistosa spilla con il motto «Let's Talk about Art». Non sarebbe una cattiva idea da importare sistematicamente nei principali musei italiani, accanto alle già esistenti visite guidate o in sostituzione qualora esse non siano previste.

Passeggiare lungo i corridoi di una qualsiasi istituzione newyorchese significa famigliarizzare con una infinità di nomi che hanno fatto la storia economica e politica degli Usa. Secondo una regola del vecchio liberalismo, che non era ancora disgiunto dalla morale (cristiana), le grandi famiglie e i grandi uomini devono restituire qualcosa alla società e insieme rendere eterno il proprio nome. Non c'è praticamente quadro, comprese le acquisizioni, che non sia stato donato o sponsorizzato da un benefattore. Alcuni hanno battezzato il museo stesso (oltre al Guggenheim, la favolosa Frick Collection). Altri un'ala, spettacolare quella del discografico David Geffen al MoMa, valore ben oltre i cento milioni di dollari. Anche in Europa c'è qualcosa di simile. D'altronde il sistema americano ricorda quello inglese. In Francia, gli ex presidenti lasciano un'opera pubblica, clamoroso il caso di Jacques Chirac che donò al Paese il parigino Musée du Quai Branly. E pensare che Chirac era ritenuto un destrorso incolto... La sua eredità invece è una esposizione magnifica di arti primitive o di arti e civiltà d'Africa, Asia, Oceania e Americhe, comunque non occidentali. Uno sguardo multiculturale ben lontano dalla retorica del politicamente corretto e ancorato alla reale conoscenza del «diverso». Ecco, sarebbe bello se in Italia i benefattori non fossero quattro gatti. I nostri imprenditori preferiscono mettere le opere d'arte in un caveau all'estero. Nessuno potrà vederle e saranno fonte di sicuro litigio tra gli eredi. In quanto ai politici, si lamentano di guadagnare una miseria, poveri loro, di certo non possono lasciare qualcosa alla società, al massimo possono andare avanti a succhiare il sangue ai sudditi, pardon, contribuenti, pardon, cittadini.

Infine, e qui veniamo anche a un problema italiano, sottolineato da Vincenzo Trione in un corsivo sul Corriere della Sera di qualche giorno fa. Molti musei italiani non dispongono di un archivio ben fatto, in digitale, e di un luogo dove poterlo consultare.

Naturalmente ci sono eccezioni. Ad esempio, la Biennale di Venezia ha investito un tesoretto per munirsi di una struttura di questo genere, che darà frutti inimmaginabili nel campo degli studi. Una realtà più piccola, il Mart di Rovereto, dispone di un monumentale archivio on line. Basta consultarlo rapidamente per capire che i documenti a disposizione consentirebbero di riscrivere la storia di un certo futurismo nato in provincia ma cresciuto a livello internazionale. Qui entra in campo la pigrizia. Gli «esperti» preferiscono i dibattiti sociologici alla ricerca sul campo. D'altronde, la sociologia si può fare (male) anche seduti sul divano con un paio di quotidiani in mano. La ricerca sul campo invece costa fatica e denaro.

Ogni grande istituzione newyorchese ha il suo catalogo e il suo archivio. Passando dai musei alle biblioteche, si direbbe che la New York Public Library faccia di tutto per far entrare nelle sue sale chi non è abituato a farlo.

Per questo sono on line succulente descrizioni dei fondi più accattivanti (quello di Lou Reed, ad esempio). La cosa divertente è che la burocrazia è minima. Insomma: i faldoni ve li portano sul serio. Ecco un'altra bella idea da copiare.

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