Il passo per finire all'inferno è breve. Ogni anno Marsha M. Linehan regala ai suoi studenti una citazione incorniciata dalle Lettere a un giovane poeta di Rilke: «Non dare per scontato che colei che cerca di confortarti ora viva senza problemi tra le semplici e calme parole che a volte ti fanno bene. La sua vita è molto difficile e triste... Se così non fosse non sarebbe mai riuscita a trovare quelle parole». Giancarlo Dimaggio dice che «la madre di tutte le paure» è quella del buio, «la paura dei luoghi oscuri». Quelli che ci portiamo dentro. Il nostro inferno piccolo piccolo eppure immenso. Per Paolo Milone, «l'incontro con il paziente non è l'imposizione della ragione sulla follia: è l'incontro tra due follie». E poi? «Spera che la tua sia più umana e saggia dell'altra».
Si può finire all'inferno, abitarci (male) per anni, e poi uscirne, ma bisogna avere il coraggio di attraversare le fiamme. Marsha M. Linehan, Giancarlo Dimaggio e Paolo Milone conoscono bene questo inferno dell'anima: sono tutti e tre psichiatri, i primi due anche psicoterapeuti, e in tre libri diversi trascinano il lettore in questo inferno, e poi lo fanno risalire, con loro, all'aria aperta. Non c'è purgatorio, non c'è paradiso, alla fine del viaggio: c'è solo un giardino da coltivare, ciascuno come può, come suggerisce Marsha ai suoi pazienti: «Se sei un tulipano, non cercare di essere una rosa. Vai a cercare un giardino coltivato a tulipani». Con una certezza, che «tutti possono imparare a fare giardinaggio».
Marsha ha imparato. Era un tulipano e voleva a tutti i costi essere una rosa, soprattutto agli occhi della madre e del padre, una coppia dell'alta borghesia di Tulsa con sei figli. A diciotto anni, nell'aprile del 1961, è una ragazza bella, popolare e intelligente che finisce in un istituto psichiatrico perché, da qualche mal di testa, è passata a uno sconforto devastante e poi a tagliarsi, ferirsi, bruciarsi. Resta rinchiusa due anni, tenta il suicidio, è talmente imbottita di farmaci che le rimangono voragini nella memoria, finché un giorno, suonando al pianoforte, «un'anima solitaria in mezzo alle altre anime solitarie del reparto», fa una promessa: «Giurai a Dio che mi sarei tirata fuori dall'inferno e che, una volta fatto questo, sarei tornata all'inferno e ne avrei tirato fuori le altre persone». E così è andata: oggi Marsha M. Linehan ha 77 anni, insegna Psicologia e Psichiatria all'Università di Washington e ha inventato la Dialectical Behavior Therapy, che dal 1991 è considerata un metodo particolarmente efficace per trattare il «disturbo borderline della personalità», soprattutto per chi ha tendenze al suicidio. Marsha si è impegnata a curare chi, come lei, dalla scienza era considerato un caso perso. E lo ha fatto sviluppando una terapia della quale lei stessa, strada facendo, ha sperimentato i benefici, e che unisce due anime: l'intervenire per cambiare il comportamento (e non il modo di pensare) e la mindfulness, che oggi pare una banalità ma, negli anni '70, per la scienza era orrore; ed è un metodo «dialettico», perché si basa sull'equilibrio fra l'accettazione e il cambiamento, grazie a una serie di abilità che vanno acquisite e allenate. Insomma è una pratica «pratica», per arrivare a che cosa? A Una vita degna di essere vissuta, come si intitola il suo straordinario memoir autobiografico-scientifico (Cortina, pagg. 414, euro 24).
Anche alla mindfulness di Marsha Linehan ha guardato, a un certo punto, Giancarlo Dimaggio, romano, esperto di narcisismo (in settembre uscirà un suo nuovo saggio sul tema per Baldini+Castoldi), che all'inferno è finito per un destino crudele, che gli ha portato via la moglie nel pieno della felicità, in famiglia e sul lavoro. Come ci si ripara quando si è rotti? La risposta di Dimaggio, raccontata con ironia e umanità in Un attimo prima di cadere (Cortina, pagg. 438, euro 21) è un percorso psicoterapeutico scientifico e innovativo, da lui stesso sperimentato, la «rivoluzione esperienziale»: «Riscrivi quegli automatismi a livello preverbale e di reattività corporea che sono il cuore della sofferenza», e non solo parlando bensì «rivivendo» ciò che ti fa soffrire fino a «un attimo prima di cadere»; è a quel punto che, intervenendo a livello «fisico», possiamo riscrivere la nostra storia, agendo su quegli automatismi che determinano la nostra visione del mondo. Come si fa? Ricorrendo per esempio alla drammatizzazione o alla mindfulness, pratiche che oggi «non sono più solo bellissime e potenti ma anche documentabili secondo il razionale delle scienze cognitive». Il vantaggio della terapia è che è «più radicale, più veloce e con effetti più duraturi», perciò si parla di «rivoluzione esperienziale». Per Dimaggio la chiave, a livello personale, è stata in «tre sedute» che lo hanno reimmerso «nelle scene più dolorose» della scoperta della malattia e poi della perdita della moglie: «Ho sentito come nel mio corpo ci fosse la soluzione, ho fatto clic». Il guaritore ferito (e poi guarito a sua volta) Dimaggio dice che «se uno non ha qualche guaio passato non fa questo lavoro».
Paolo Milone, quarant'anni in psichiatria d'urgenza a Genova, ha «trascorso la vita a distanza ravvicinata dalla Bestia», come racconta in L'arte di legare le persone (Einaudi, pagg. 194, euro 18,50), e «legare» è inteso in senso concreto, perché molte volte, in Pronto soccorso, o nelle case, Milone si è ritrovato a «contenere» i pazienti, ma «legare» è anche «il riunire frammenti spezzati tra loro, mettere insieme mente e corpo, riunificare la persona, come un gesso rinsalda le ossa. Far di pezzi, uno». I suoi sono ricordi in forma di epigrammi, in cui la forma appare tanto più leggera quanto più si cala nel dolore, quel «dolore impoetico» che si cura in psichiatria d'urgenza, i tagli con la lametta di Lucrezia, gli insulti violenti del tossicomane Carmelo, Alfio che si chiude a tripla mandata perché «lo controllano», Giuseppina che non si alza mai dal letto e ha rinchiuso la sua vita in un armadio, l'energumeno che cerca di picchiare il dottore di turno e poi di fracassare l'ospedale, Giorgio che chiede di farsi legare quando sente che vuole sfracellare la testa contro il muro e Miriam, appena ricoverata, che entra in stanza e si butta dalla finestra, in dieci secondi. «Di fronte a un paziente agitato e confuso, ogni strada è sassosa».
Purché non lo si abbandoni, purché non si creda che la follia non esiste: «Nell'epoca manicomiale i matti venivano esclusi dalle città, oggi sono esclusi dalla mente». Anche Milone ha un maestro zen: la moglie, che lo spedisce a buttare la pattumiera. L'inferno, spesso, sono i nostri stessi pensieri. E allora «non pensare, fai».
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