Che scherzi a volte fa il destino. Il cantautore siciliano Mario Venuti, come lo scrittore-pittore Dino Buzzati, si sente vittima di un tragico equivoco: «Il mondo del pop mi ha sempre guardato con diffidenza ritenendomi troppo intellettuale, e dall'altra parte gli alternativi indipendenti mi snobbano perché mi considerano troppo pop; ma io sono soltanto me stesso...». Cioè racconto soltanto delle storie, direbbe Buzzati.
Lui invece, quarant'anni di carriera appena celebrati con l'eccellente album Tra la carne e il cielo, il suo tredicesimo, scrive e compone da sempre canzoni «fuori dal coro», si direbbe oggi, in un mix sapiente di testi profondi e musiche contaminate di tropicalismo e un pizzico di pop-rock. Nel suo percorso artistico, a dire il vero, non manca qualche «hit» in salsa sanremese lanciata in pasto al grande pubblico, come Crudele, Echi d'infinito, Un altro posto nel mondo, A ferro e fuoco, ma soprattutto Veramente e Mai come ieri, in sodalizio con Carmen Consoli.
Eppure, come recita in uno dei suoi brani, si è trattato di un attimo, «soltanto un attimo». Al successo facile Venuti ha infatti sempre preferito la poesia della scrittura e la musica che ha dentro, quella fortemente intrisa di generi di nicchia come le melodie e i ritmi del nordest del Brasile, come l'afoxè di Bahia e il samba-reggae, quasi sconosciuti al grande pubblico rispetto agli stereotipi della saudade già abbondantemente saccheggiati dalla canzone non solo italiana.
Segno zodiacale, Scorpione; guardacaso il segno che più di tutti ama il rischio (ricordate la favola della rana?...). E allora, per non dover obbedire alle regole del mainstream dello spettacolo, da alcuni anni si autoproduce esclusivamente con la sua etichetta Microclima. «A volte mi sento un po' donchisciottesco - scherza - ma la mia ultima esperienza con una famosa casa discografica mi ha lasciato parecchio scottato, anzi mi ha praticamente rovinato un album. Detto questo, non vorrei assolutamente apparire snob: a 60 anni, come quando ne avevo 30, voglio semplicemente essere libero di fare la musica che mi piace, che non è solo figlia del Brasile, ma anche della new wave degli anni Ottanta, e ancor prima dei Beatles, dei Talking Heads e di Elton John; che sono poi le radici della musica dei Denovo, la mia band di allora».
Il suo stile, un po' dandy nell'estetica, si riversa anche nel modo di cantare, con tonalità spesso basse e una timbrica melodiosa alla Caetano Veloso. «Dei cantanti brasiliani mi affascina un certo modo elegante, quasi sussurrato, di usare la voce. Noi italiani invece, sarà per il retaggio del melodramma, quando cantiamo ci sentiamo quasi obbligati a spaccare i decibel...».
Spesso in giacca cravatta e cappello panama stile trilby nelle foto ufficiali, rifugge anche certi cliché iconici del mondo dello spettacolo. «Non voglio fare nomi di colleghi famosi a cui voglio anche bene, ma non si capisce perché in Italia, per essere una popstar, devi per forza assumere il travestimento del macho con i camperos da cowboy, o quello del finto ubriacone maledetto, o dell'efebo carnevalesco o del drogato con tendenze stalker...».
Volendo cercare un modello positivo, all'artista siracusano viene inevitabilmente il nome di Franco Battiato, e non solo per la conterraneità. «Trovo che Battiato avesse delle forti similitudini con Caetano Veloso, anche se con modalità inverse; Franco partiva da composizioni contemporanee colte che traduceva in musica pop, mentre Caetano ha sempre attinto dalle radici popolari della cultura brasiliana per creare uno stile ricco di riferimenti colti, anche europei. In entrambi c'è una dialettica costante tra sacro e profano, tra cielo e terra, ma io mi sento più vicino all'animismo di Veloso, alla sua sensualità artistica».
Tra la carne e il cielo è il titolo del suo ultimo album, forse il più maturo. I brani, pur sempre colorati di sonorità mediterranee, raccontano storie di dolore e sofferenze, di questioni sociali come lo sfruttamento dell'immigrazione (Angelo negro), gli abusi sessuali (Abusando), la discriminazione di genere (Ganimede), il decadimento del Belpaese (Degrado). «Quello dell'immigrazione è un tema che tocca molto da vicino soprattutto noi siciliani che l'Africa l'abbiamo di fronte, è una domanda che cerca urgente e comune soluzione, non palliativi, né facili populismi. Non è un caso se per il mio Angelo ho scelto l'aggettivo negro, citazione della poesia di Fausto Leali, e non nero, politically correct un po'... ipocrita. Volevo che il brano esprimesse tutto il dramma di chi si confronta con un destino gramo e una cultura ancestrale». Non sembra neppure un caso, allora, che il regista Matteo Garrone, recente nomination agli Oscar per il film Io capitano, lo abbia contattato per un progetto comune che avrebbe fatto parte della sua tournée e che è slittato per ragioni tecniche.
«Nel suo film, Garrone ha raccontato con crudezza e poesia la storia di un ragazzo che è costretto ad affrontare le prove più crudeli in Terra nell'illusione di un domani migliore. Perché ha pensato a me? Forse perché anch'io, come lui, rifuggo il divismo, racconto la vita vera e soprattutto il diritto, sempre, ad essere felici».
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