Secondo Régis Debray, saggista «guevarista», è tempo che Paul Valéry (1871-1945) smetta i paramenti sacri: non è più lui il papa re della poesia francese del '900. Più dell'etereo oracolo, «esteta dell'esattezza, pioniere della precisione», è René Char, «eremita ed eroe», a rappresentare la poesia di ieri, di oggi e che verrà. A differenza di Char, il leggendario Capitaine Alexandre della resistenza francese, Valéry, abituato alla stola e ai simboli di cristallo, «non ha mai impugnato una pistola»: così scrive Debray in Où de vivants piliers (Gallimars, 2023), libello in cui l'intellettuale marziale, impelagato nell'impegno, stila la lista dei suoi lari, dei suoi guru. Dimentica, Régis Debray, allora aitante guerrigliero ora vecchio cecchino da divano, che il poeta uccide per eccesso di luce: disarmato, disarma.
In realtà, Paul Valéry resta ancora al centro del canone: ogni sua frase ha il sigillo del tremendo, soltanto lui, con disumano snobismo, potrebbe scrivere che «in ogni terribile epoca umana si è sempre visto un signore seduto in un angolo, che pensava alla sua arte, e infilava perle». All'inizio dell'anno, Gallimard ha riscoperto e pubblicato le dispense del Cours de poétique tenuto dal poeta al Collège de France, dal 1937 al 1945. All'epoca, la cattedra di «Poétique» fu ideata proprio per Valéry, oggi la stampa tutta, stordita dallo stupore, si è inchinata al cospetto del suo poeta, come sempre sigillato in un tempio di reticenze.
All'esordio del corso, davanti a frotte di studenti incuriositi, Valéry attaccò parlando di oracoli e di «linguaggio interiore»; disse che «l'uomo è un'avventura». Alla sua morte, nel luglio del 1945, il generale De Gaulle ordinò le esequie nazionali: dopo la cerimonia, in Saint-Honoré d'Eylan, Parigi fu immersa nel buio. Anche la luce elettrica tacque, magnetizzata dal dolore; Paul Valéry, di fatto, fu eletto «poeta della nazione». Pochi anni prima, il poeta aveva scritto che «La politica trova sempre una formula nobile ad autorizzare le più infami procedure».
Anche quando era impegnato nella sua incessante attività da conferenziere, elegante, etereo, adamantino «figlio dei Lumi, ormai del tutto intelligibile» (così Debray), Paul Valéry restava cifrato. Un istrione che simula la Sfinge, l'uomo dell'enigma, sempre e comunque. In cima ai suoi mostruosi Cahiers un continente di 26mila pagine forgiato per sé solo in 261 quaderni, «scritti religiosamente, dal 1894 al 1945, ogni giorno, o quasi, fra le quattro e le sette-otto del mattino, nella solitudine dell'alba... un documento unico nella letteratura francese», così Judith Robinson-Valéry il poeta scrive, «Qui non mi preme incantare nessuno». Tutto il resto, l'intelletto messo in massa, biada per il pubblico, la letteratura e i suoi mandarini (o mandriani) è un enorme gioco di prestigio, un incantesimo, appunto, una memorabile autodifesa. Nel suo labirinto di specchi che definisce «autodiscussione infinita» Paul Valéry è finalmente il Minotauro, il memorabile mostro che si nutre di giovinetti. Forse è a lui che pensava Jorge Luis Borges immaginando Asterione, il sapiente che domina le forme astratte un labirinto anti-euclideo, costruito da un Dedalo-Escher e sceglie la morte incontrando Teseo, rozza ombra d'eroe, legalista alieno dal sacro.
Inattingibile ed evanescente, Paul Valéry, l'opposto di Arthur Rimbaud (costruisce la sua Africa a Parigi, fugge vivendo, fa sciacallaggio tra le ombre), è davvero Il poeta maledetto. Con questo titolo, l'editore De Piante raccoglie i capolavori del poeta, Monsieur Teste e Il cimitero marino, nella versione approntata da Franco Rella (pagg. 170, euro 20). Il pensatore italiano, che ha confidenza con i «mostri» letterari (il suo nuovo libro, vertiginoso, uscito da poco, s'intitola La solitudine del Minotauro, edito da Aragno), risolve il lavoro con un potente testo filosofico sul «lato oscuro» della poesia di Valéry. Alchimia del poeta ossessionato dalla morte, che tentava di sbalordire gli inferi, la corruzione del corpo, la corruttela tutta, con la perfezione del canto. Da qui, la cristallina bellezza del Cimitero marino, pura musica, geniale giaculatoria ignifuga all'esegesi, alla consacrazione del senso; testo di luce, pitagorico, infine insignificante: il grado zero della lirica. Un enigma. «Si leva il vento!... Avventuriamoci alla vita!/ Apre e chiude il mio libro l'aria infinita,/ L'ombra si sfarina rimbalzando sui picchi!/ Volate pagine, tutte abbacinate!».
Allo stesso modo, Monsieur Teste, elaborato a partire dal 1896, con svariate aggiunte, è, insieme a pochi altri, rarissimi libri Cuore di tenebra di Joseph Conrad, la Lettera di Lord Chandos di Hugo von Hofmannsthal , un punto di non ritorno, la pietà e la deposizione del romanzo. L'estro paranoico ha istanti di splendore che atterriscono: Orfeo fa pettegolezzi con Socrate. «Non ho bisogno di niente. La parola stessa bisogno non ha senso per me. Dunque, farò una cosa. Mi darò un fine. Tuttavia, niente è al di fuori di me».
L'enfasi della crisi a Genova, nella notte tra il 4 e il 5 ottobre del 1892 che lo porta a rinunciare alla letteratura; il ritorno alla poesia, con la violenza del recluso («Mi sembrava di essere un monaco del V secolo che sa che tutto è perduto, che il convento sarà incendiato e i barbari distruggeranno tutto. Nessuno vedrà la sua opera. Ma lui fa ciò che sa fare e continua, senza contare le ore, il suo paziente e minuzioso compito di fare degli esametri quanto più corretti possibile», scrive nel 1913); la certezza di essere solo, l'unico sole, la teatralità, il viso da cobra, la lingua con le unghie: «Io lavoro senza fine, loro non fanno che improvvisare». Il terrore della morte: dietro la brina dei versi, laccati, nuziali, si cela null'altro che la carcassa, il sole putrescente. Oppure, semplicemente, un poeta rotto in pianto.
Nel suo studio, Rella ricalca uno degli ultimi pensieri di Valéry: «Conosco anche my heart. Esso trionfa più forte di tutto, della mente, dell'organismo. È un fatto».
Il cuore di Valéry è leonino, scalpita. Grida. E noi, critici sdentati, erbivori, pensiamo ancora che sia quella la maledizione del poeta: essere senza cuore, creatura esangue. Ma la luce, tolto l'amore, è claustrofobica: heart che diventa iceberg.
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