I gialli luminosi dei quadri di Vincent van Gogh si stanno lentamente spegnendo. È la triste notizia data da un gruppo di ricercatori europei, fra cui molti italiani, e apparsa ieri sulla rivista Analytical Chemistry: «Le sfumature del giallo, tipiche della vibrante pittura di van Gogh e di altri impressionisti come Pissarro, Manet e Reinoir, sono a rischio», spiega Costanza Miliani, ricercatrice dell’Istm-Cnr e coautrice dello studio, perché quei gialli sono a base di cromato di piombo e hanno una scarsa stabilità chimica e fotochimica, «che si manifesta nel tempo con un marcato imbrunimento». I pittori del XIX secolo erano stati attratti dalle possibilità espressive dei pigmenti di nuova formulazione prodotti grazie all’evoluzione della chimica di sintesi, ma alcuni di questi pigmenti hanno mostrato nel tempo una maggiore – e deleteria - reattività rispetto agli agenti atmosferici come luce, temperatura e umidità, rispetto ai materiali naturali dell’arte tradizionale.
Notizia tristissima, perché il «giallo van Gogh» ha emozionato e continua a emozionare chiunque lo guardi con partecipazione emotiva. Lo ha dimostrato il successo della recente mostra al Vittoriano (aperta fino al 20 febbraio), lo ha confermato il successo della performance teatrale di Paola Veneto, La discesa infinita, rappresentata pochi giorni fa dalla «Piccola Compagnia la Luna e sei soldi», proprio al Vittoriano. E noi non vogliamo che quei gialli si spengano. A costo di sembrare pazzi. Come “pazzo” fu definito van Gogh anche a causa di quei colori allucinati.
Da più di un secolo psicanalisti e psichiatri si sono addirittura divisi in due scuole: i francesi dicono che van Gogh era epilettico e i tedeschi che era schizofrenico. Poi ci sono centinaia di altri che hanno avanzato una quantità incredibile di ipotesi sofisticate. Ne elenco solo alcune: colpo di sole cronico o influenza del giallo, epilessia psicomotoria, dromomania, eccitazione maniacale, desiderio di castrazione, omosessualità inconscia di tipo masochista e passivo, intossicazione da essenza di trementina. Infine, persino febbre gialla, a giustificare tutto quel giallo nei dipinti. Per me, che in un libro su van Gogh ho aggiunto un punto interrogativo dopo Follia, sono sciocchezze. La cosiddetta follia di van Gogh fu un prodotto – anche – della denutrizione e dell’eccessivo uso di assenzio: sentite cosa disse il 24 marzo 1889, con una semplicità commovente, al dottor Rey che lo rimproverava di avere bevuto troppo alcol: «Lo ammetto, ma per raggiungere l’alta nota gialla che ho raggiunto quest’estate ho dovuto montarmi un poco». Alcol, sì, ma soprattutto il frutto di un dolore estetico/esistenziale.
Ho trovato un’impressionante somiglianza in un passaggio della Nausea di Jean-Paul Sartre (1938) e in una lettera di Vincent al fratello Theo, quasi mezzo secolo prima. Scrive Sartre, nel suo romanzo sull’esistenzialismo: «Quella radice. Tutto in rapporto a essa era assurdo. Assurda. In rapporto ai sassi, ai cespugli, all’erba gialla, al fango secco, all’albero, al cielo. Assurda, irriducibile. Niente, nemmeno un delirio profondo e segreto della natura poteva spiegarla. Davanti a quella grossa zampa rugosa, né l’ignoranza né il sapere avevano importanza. Il mondo delle spiegazioni e delle ragioni non è quello dell’esistenza. Quella radice esisteva, e in un modo che io non potevo spiegarla».
Van Gogh aveva scritto: «Se si disegna un salice come se fosse un essere vivente, e in definitiva lo è veramente, tutto il resto segue con facilità. Basta concentrare l’attenzione su quell’unico albero finché non si è riusciti a infondergli la vita. Volevo esprimere qualcosa della lotta della vita sia in quella pallida e sottile figura di donna come pure nelle radici nere, contorte e nodose. O meglio: visto che ho cercato di riprodurre fedelmente la natura come io la vedevo, senza farci su della filosofia, in tutti e due i casi, involontariamente, si vede qualcosa di quella lotta. Sia nella figura che nel paesaggio vorrei esprimere non una malinconia, ma il dolore vero».
Van Gogh ci mostra la disperata, violenta, volontà di esistere della natura, e la esprime soprattutto attraverso quel colore. Il giallo dei campi di Van Gogh è lo stesso giallo accecante di chi guarda dritto il sole nel pieno della sua luce. È il sole che si trasferisce sulla terra nelle spighe di grano, con una forza e una brutalità che affascinano noi come affascinavano Vincent. I mietitori, nei suoi quadri, sono come travolti da quell’urto, che assume i movimenti delle onde del mare. Insomma, credo che la chimica c’entri poco con l’emozione che ci dà quel giallo, ma ora bisogna assolutamente salvarlo.
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