La vera storia del medico degli orrori

Il primario arrestato a Milano, figlio adottivo di un medico di fama, smaniava per seguirne le orme. A 43 anni già ai vertici, odiato dai colleghi e amato dai malati. Alla clinica Santa Rita mortalità dieci volte sopra la media

La vera storia  
del medico degli orrori

Milano - «Ho agito secondo scienza e coscienza», ripete in carcere il dottor Pier Paolo Brega Massone. E sembra una sbruffonata, una provocazione, uno sberleffo alle decine di tragedie raccolte nelle cartelle cliniche dei pazienti che hanno avuto la sventura di finire sotto i suoi ferri: alle ragazze private del seno senza motivo, ai vecchi cui è stato impedito di morire in pace. Eppure più di un indizio dice che Brega - in un certo senso - non mente. La follia di quel che accadeva nella clinica Santa Rita è inoppugnabile, nero su bianco, certificata nelle perizie ordinate dalla Procura. L’analisi meticolosa compiuta dalla Guardia di finanza ha ricostruito imbrogli, tabelle, diagnosi e terapie. Ma non ha risposto a due domande. Interrogativi che, in fin dei conti, per l’indagine contano poco: e che però è inevitabile porsi. Chi è davvero Pier Paolo Brega? E perché ha fatto quel che ha fatto?

L’ordine di cattura è categorico: Brega è accusato di avere rovinato e a volte ammazzato i suoi pazienti «ai fini di commettere il reato di cui al capo Q», cioè di gonfiare i rimborsi alla Santa Rita, le truffe al servizio sanitario pubblico. Ma i rimborsi finivano in tasca alla clinica, al suo padrone assoluto, il notaio Pipitone. Certo, Brega avrà incamerato qualche aumento di stipendio, qualche premio di produzione. Ma si ammazzano cinque persone e se ne rovinano ottantotto per avere un aumento di stipendio?

La faccenda, forse, è più complicata. E lo diventa ancora di più se si fa una gita fino a Pavia, via Cascina Spelta 24/b. Qui abitava, fino a lunedì scorso, Brega. E si rimane di sasso. Una casa modesta. Su un piano l’appartamento dove Brega viveva con la moglie e la figlia di dieci anni. Su un altro piano, la suocera. Nessuna traccia del lusso cui anni di sanguinosi imbrogli avrebbero dovuto aprire le porte. E allora? Perché, se non per i soldi?

Qualcosa, forse, aiutano a capire gli spizzichi di biografia. Brega ha alle spalle una storia dura. Nasce a Stradella, nell’Oltrepò Pavese, nel luglio 1964. I genitori sono gente semplice, non ricca. E muoiono entrambi, tragicamente, quando Brega è ancora un bambino, in un incidente automobilistico. Brega e suo fratello finirebbero in istituto, invece vengono adottati. A fare loro da padre è il chirurgo Massone, un personaggio allora in vista. Pier Paolo lo venera, e giura di seguirne le orme. Studia come un ossesso. Prima il liceo e la facoltà di medicina a Pavia, poi la specializzazione a Milano. Al proprio cognome, aggiunge quello del padre adottivo. Non ci sono foto né ricordi, di quegli anni. Il futuro maniaco del bisturi pensa solo a studiare. Quando arriva a fare la specializzazione all’Istituto nazionale dei tumori, nel 1998, è già una specie di workholic, un drogato da lavoro: «Uno che nella quantità di lavoro non si poneva molti limiti» dice Ignazio Cataldo, il suo superiore di allora. Nei suoi confronti, come si comportava? «Era molto corretto. Direi persino ossequioso».

Si fatica, oggi, a trovare qualche collega disposto a parlare bene di Brega. Ma, incredibilmente, si trovano molti pazienti pronti a difenderlo. «Lo adoravo», dice ai giornali Rosanna Stoppa, una cui Brega ha amputato senza motivo un pezzo di clavicola. E sulla redazione della Provincia pavese piovono le mail di solidarietà degli operai di Broni devastati dal mesotelioma e curati da questo giovane medico dalla faccia qualunque, non alto, gentile e con una dannata passione per la Juventus.

Di certo c’è che in quegli anni Brega sviluppa un’autostima apparentemente fuori controllo, e che in qualche modo forse aiuta a capire quel che accade dopo. «Un arrogante e un millantatore», lo definiscono ieri alcuni ex colleghi. Invidia? A 43 anni, Brega è primario. E la sua fiducia in se stesso è tale da non venire scalfita neanche dalle prime avvisaglie dei guai. Ci sono due intercettazioni significative. «Io voglio uscire da questa fogna e c’è già gente che mi dice “venga qua, venga là”», si sfoga con un collega dopo che il suo boss, il notaio Pipitone, gli ha tolto la fiducia. Ed ecco come reagisce, parlando con la propria moglie, quando gli arriva l’atto di citazione di una paziente, gravemente malata di tumore, cui ha tolto un polmone: «Guarda, non me ne frega proprio un cazzo, è quella puttana di Diano Marina, non so dove sia uscita questa cagata, questa qui l’ho liberata dalla malattia, perché dopo le ho fatto una pet total body.. qualche cretino di chemioterapista le avrà detto secondo le concezioni celebrali vecchie che si doveva fare la chemioterapia, così sarebbe già morta, e se è viva lo è solo perché l’abbiamo liberata dalla malattia... comunque non me ne frega niente».

«Non me ne frega niente»: alla fine forse è qui, in questo cockatil esplosivo di arroganza, cinismo,

riscatto e ambizione che è più sensato cercare il bandolo della matassa. Qui, forse, più che nella banale fame di quattrini, si spiega il mistero che ha trasformato il bambino dell’Oltrepò nel Dottor Morte di via Jommelli.

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