Ernesto Galli della Loggia, omine nomen visto che è uno dei corifei della loggia di potere che tiene le sorti della Rcs e di quel giornale partito che è il quotidiano di via Solferino, un ridotto delle gauche caviar, dalle pagine del Corriere della Sera ha spiegato al colto e all'inclita che la mossa di Silvio Berlusconi di depositare il simbolo del Partito della libertà e di affidare alla rossa (ma solo di capelli) Michela Vittoria Brambilla la gestazione del nuovo soggetto politico è la dimostrazione più evidente che Forza Italia era e resta un partito di plastica. Sentenzia il della Loggia - ma di quale loggia non è dato sapere visto il suo cerchiobottismo a 18 carati - che «Forza Italia era un partito di plastica, e di plastica è rimasto, nel senso che non ci sono iscritti, non c'è discussione. C'è solo il capo, e il capo è lui per una sola ragione: perché ha le televisioni e un mucchio di soldi, e quindi paga tutto e ogni cosa, incluse naturalmente le campagne elettorali».
Si potrebbe obbiettare che il Pd ha provato ad avere una banca e comunque ha le due maggiori banche alleate, che ha la Rai tutta intera, che ha quasi tutta la stampa, che conta su uno stuolo di apparatnik pagato dai contribuenti italiani, che esercita il Fisco di scambio. E si potrebbe ricordare che Forza Italia ha mezzo milione di iscritti, celebra congressi, ha i bilanci in attivo. Ma sono cose stantie e arcinote. L'importanza di chiamarsi Ernesto non lo sa, ma ci sta dando un'ottima notizia: ritirando fuori l'armamentario antiberlusconiano ci conferma che la sinistra è in gran Travaglio e che è ormai consapevole della disfatta prossima ventura. Tuttavia una minima chiosa alla sua intemerata è opportuno farla. Anche perché di questi tempi ai sinistri non gliene va bene una. In contemporanea con il canto del Galli il Walter-Ego ha spedito una compita letterina in cui dice (o forse minaccia) «indicherò centinaia di nomi per le segreterie regionali del Pd» che rappresentano ovviamente la «società civile». Insomma cerca di farsi la sua corte, alla faccia di «c'è solo il capo». Poi si deve essere accorto che suonava male e ha aggiunto: «Va contrastata anche la sola impressione che si intenda procedere alla scelta dei nuovi dirigenti attraverso pratiche di cooptazione, centralistiche e spartitorie».
Veltroni per confermare che lui si piega ma non si spiega ha infatti in testa un partito nazionale e federale. Boh? Ora forse dovrebbe dirlo alla Bindi, a Letta, a Bersani, costretto al gran rifiuto per disciplina di partito, che non ci sono logiche spartitorie, né processi di cooptazione nella formazione del Pd perché per tutta l'estate non hanno fatto altro che rinfacciargli esattamente questo: spartizione, cooptazione, non democraticità nelle scelte, assenza di pari opportunità tra i candidati. E in ultimo hanno cominciato a litigare anche sui soldi visto che il concambio 1 a 1 delle azioni partito tra diessini e margheriti ai primi proprio non va giù. Per primo ho scritto che il partito di Veltrelli (Walter-Ego più Rutelli) era un mostro: un Giano Bifronte che cerca di rappresentare interessi contrastanti tra loro e che per poterlo fare ha bisogno di azzerare la base, o di ridurla a semplice portatrice d'acqua. Ne ho avuto la prova girando tra Marche, Umbria e Toscana per feste dell'ex Unità. I diessini non ci stanno, non vogliono sentir parlare di annacquare la loro identità nella melassa buonista e dirigista sparsa da Veltrelli. Voteranno Veltroni perché così è ordinato, stanno insieme solo perché ce l'hanno con Berlusconi, ma nel Pd non si riconoscono. E infatti ogni piè sospinto riemerge la tentazione di stare nella «casa delle ovvietà» da separati: di tenere comunque alta la bandiera della diversità ex-comunista.
Mi sono rimaste impresse le parole di un carbonaio di Montalcino, ora in pensione e arrabbiato non poco per le tasse che gli mettono sul groppone. «C'ho in casa una bandiera del Pci grande dove voglio esser avvolto quando moio. Io di questi non voglio sapere nulla: le querce, le margherite, con la falce le taglio. Questa è l'ultima volta che mi vedono alla festa dell'Unità. Un tempo si sapeva chi stava con noi e chi era contro di noi, ora un si capisce più nulla». Non è uno sfogo isolato, è il senso di smarrimento, di delusione, di perdita di sé che ha avvolto come in una camicia di forza la base diessina, la sola credibile del futuro Pd visto che la Margherita, tanto per dirne una, ha praticato la clonazione delle tessere e che Romano Prodi è da sempre un senza-partito. E quella base sa che è esclusa dal vero circuito decisionale. Lo ha manifestato in tutti i modi alle decine di deputati che hanno battuto la provincia rossa per cercare di suscitare un entusiasmo che non c'è verso il Pd.
La base diessina si attacca ai vecchi dirigenti, ai «nostri» come dicono loro, per evitare di disperdersi, ma è consapevole che al gran ballo delle vanità delle primarie sarà costretta a fare da tappezzeria perché, come ha già annunciato Veltroni, «mi permetterò io di indicare i segretari regionali». E vedrete che in quella lista ci saranno baroni universitari, saltimbanchi, nani, ballerine, consulenti, similverdi e ovviamente giovani e donne.
Carlo Cambi
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