Roma Questa volta, per lui l’oggetto della puntata era terribilmente familiare: una tragedia sentita sulla propria pelle, o meglio - come dice lui - «Segnata, per quel che mi riguarda, da un conflitto di interessi psicologico ed emotivo». Perché Bruno Vespa è da una vita a Roma, ma non ha mai perso il suo legame con la regione dove è nato ed è cresciuto. Due sere fa, nel giorno dell’emergenza, ha condotto una puntata di Porta a Porta, in cui, come racconta, si è dovuto sforzare «per non piangere». Una puntata molto anomala, e molto interattiva: Vespa raccoglieva informazioni in diretta, organizzava iniziative di solidarietà in tempo reale, dava persino indicazioni agli uomini della protezione civile che erano collegati con il suo studio su come piazzare le tende. Una nottata in cui tornava ad occuparsi, (per la seconda volta da giornalista) della sua città.
Che idea si è fatto di questo terremoto?
«Da giornalista ho seguito tutti i terremoti della nostra storia recente, dal Friuli, all’Irpinia, all’Umbria, a San Giuliano...».
Più le analogie o le diversità?
«C’è una costante, sempre. Nessuno vuole abbandonare la sua terra, anche se tutto è stato distrutto».
E in questa vicenda che cosa ha capito?
«Ho acquisito abbastanza esperienza per dire una cosa che può sembrare segnata da un ottimismo pro forma, ma che invece non lo è affatto».
Quale?
«Sono giorni che passo i pomeriggi con la testa sulle agenzie, sto seguendo i miei inviati sul campo, valuto i dettagli dell’intervento e lo sviluppo dell’emergenza... Ebbene, sono convinto che l’Abruzzo si riprenderà da questa tragedia, che l’Aquila coglierà questa occasione per risorgere, più bella di prima».
Ci sono state polemiche sui soccorsi, lei che ne pensa?
«Francamente mi fa piacere che tutti esprimano le loro opinioni... Ci sono momenti in cui è difficile stilare pagelle e dare giudizi stando fuori. Però mi pare innegabile...».
Cosa?
«Che la protezione civile e il governo si siano mossi, in questo frangente, molto bene».
Anche se molte famiglie hanno dormito in macchina...
«Mi chiedo se ci si rende conto del fatto che ieri notte oltre 70mila persone hanno perso il tetto, e sono rimaste sfollate! Di fronte a questi numeri quale macchina organizzativa avrebbe potuto fare di più?».
Lei ha dato ampio spazio alla polemica sulla «previsione» del sisma con una intervista esclusiva a Giampaolo Giuliani.
«Mi sembrava un dovere giornalistico».
Ho visto che il professor Barberi, in diretta, si è risentito...
«No, non mi pare. Ha espresso tutti i suoi dubbi come era legittimo, noi abbiamo approfondito una ipotesi, cercando di capire se esiste o meno un possibile fondamento scientifico».
È proprio questo che non mi pare vada a genio agli esperti della commissione grandi rischi...
«Stiamo parlando di una intervista che è stata richiesta in tutto il mondo! Dal Giappone al Sudamerica... Era una notizia, punto».
Non deve convincere me!
«Fatto salvo il dovere di cronaca, e l’informazione di servizio che hanno assoluta priorità, abbiamo fatto giornalismo vero, su un problema che pone dei dubbi ai ricercatori di tutto il mondo».
Facciamo un passo indietro. Le era mai capitato di fare una puntata di «Porta a Porta» sulla sua città?
«Guardi, l’ultima volta avevo raccontato da inviato la cosiddetta rivolta fascista del 1971».
Noto che lei marca molto l’accento su quell’aggettivo.
«Sì, perché di fascista, in realtà, quella rivolta aveva poco o nulla. Era una autentica sollevazione popolare per difendere il titolo di città capoluogo».
Ha un ricordo che le è rimasto indelebile?
«Accidenti! Arrivai in piena notte: strade al buio, ma illuminate dalle fiamme dei fuochi».
La città democristiana che vedeva soffiare il vento di rivolta.
«Qui bisogna fare un discorso sulla storia cittadina: era la capitale degli uffici che si vedeva soffiare la sua industria primaria, la burocrazia amministrativa, e reagiva con una rabbia disperata».
Chi sono davvero i suoi concittadini?
«La nostra è una città che nel medioevo era nata sull’imprenditoria e sui commerci. Una città dinamica e produttiva, quindi».
E poi?
«Poi questa spinta si è attenuata. Se si vuole cercare una ragione storica, credo che la radice di questo rallentamento sia da cercare nella dominazione spagnola».
Durante «Porta a Porta» lei ha definito l’Aquila una delle capitali del rinascimento italiano.
«Perbacco! Lei che parola userebbe per una città fondata nel 1250, che in appena quarant’anni vede accorrere i re di mezza Europa per l’investitura di Celestino V? La storia de l’Aquila è stata segnata da questo piccolo miracolo. E ci regalerà nuove sorprese».
Lei crede che ci sarà un risurrezione rapida?
«Oh, sì... Fra l’altro credo che Berlusconi giocherà tutte le sue carte sulla ricostruzione».
In che senso?
«È stato eletto perché si è presentato come un decisore, e lo sa. È al suo terzo mandato, vuole lasciare un segno epocale...»
E quindi la risposta al terremoto secondo lei è un modo per farlo?
«Certo. Se vuole lasciare un segno, deve fare della resurrezione de L’Aquila una seconda Napoli. D’altra parte anche la frequenza dei suoi viaggi mi pare un segnale innegabile».
E gli abruzzesi come reagiranno?
«Ha visto durante la mia puntata il collegamento da Onna? C’era uno sfollato che chiedeva solo due cose: aiutateci, e levateci di mezzo la burocrazia. Un messaggio più chiaro di questo...».
Ho visto anche che in onda lei dava indicazioni su dove trovare tende agli uomini della protezione civile...
«Sì, anche questo può fare la televisione. Avevo letto che a San Demetrio erano arrivate 500 tende, mi sembrava strano che a pochi chilometri, e a notte inoltrata, ancora non ci fossero. L’indomani ho anche controllato».
E c’era un motivo?
«Sì: avevano valutato che in alcune zone, il rischio alluvionale era tale da sconsigliare la realizzazione di una tendopoli. Un’altra riprova del fatto che la protezione civile non si è mossa a caso».
Quando quel signore è scoppiato a piangere davanti al microfono della sua inviata non ha sentito la stretta della commozione?
«Caspita. Si stava parlando della mia terra, di un dramma che mi tocca molto da vicino... Ho dovuto farmi forza».
Perché, considerava disdicevole farsi riprendere commosso?
«Senta, ognuno interpreta il mestiere come crede, c’è anche chi le lacrime le esibisce...».
Lei no.
«Io preferirei sempre evitare le emozioni pubbliche. Per una scelta di stile, ma anche per una mia interpretazione della deontologia.
Si può essere coinvolti, ovviamente.
«Oh sì... Detto questo, se lei mi chiede come mi sentivo, le posso dire che avrei voluto piangere per tutta la sera».
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