In fondo quel suo sorriso, diretto e simpatico, non è mai cambiato. Claudio Amendola è rimasto Claudio Amendola. Sono passati quarant'anni da quando debuttò, appena diciottenne, nel memorabile sceneggiato di Franco Rossi Storia d'amore e d'amicizia; ma, come dice lui stesso, «già allora ero quello che sono oggi. Senza le meravigliose esperienze fatte nel frattempo». Non ha mai smesso, insomma, di essere l'attore concreto, diretto, naturale che, da venerdì 14 per sei puntate su Canale Cinque, ritroveremo in Il Patriarca: la nuova serie prodotta da Camilla Nesbitt che, sullo sfondo di un'avvincente saga familiare, tratteggia il ritratto di un imprenditore fortemente carismatico. Ma dalla doppia, pericolosissima vita.
Regista e interprete di una saga il cui obbiettivo è coinvolgere gli spettatori.
«Fin dalla prima scena Il Patriarca parte alla grande. Il protagonista, Nemo Bandera, un uomo che ha costruito un solido potere grazie ad affari poco puliti, ma che gode invece della fama di benefattore, scopre di essere malato di Alzheimer. Il colpo è tremendo. Non solo sperimenta per la prima volta la propria fragilità, lui che si credeva invincibile; ma deve anche imparare a convivere con una malattia che, prima o poi, lo metterà fuori gioco. A chi lasciare la propria azienda? Rivelare o no di avere una figlia segreta?».
Il patriarcato, inteso come forte identità della figura paterna, è un valore che le appartiene?
«La mia è la famiglia più sconquassata del mondo. Matrimoni multipli, figli sparsi... I miei tre ragazzi, però, sanno di poter contare sempre su di me. Questo sì: questo sono riuscito a costruirlo. Ho insegnato loro che, oltre alla fortuna di venire al mondo, tutte le altre se le devono guadagnare. Tutti e tre hanno cominciato a lavorare a 18 anni. Alessia addirittura a sei, facendo la doppiatrice».
Quando Claudio Amendola debuttò ad appena 18 anni con Storia d'amore e d'amicizia (accanto ad un'altra giovanissima esordiente: Barbara De Rossi) pensava che avrebbe avuto quarant'anni di carriera?
«Nemmeno sapevo cosa fosse, una carriera. Ero un ragazzo qualunque. Non pensavo al cinema, non avevo neanche studiato recitazione. Però avevo due genitori grandi attori, e celebri nel doppiaggio: Rita Savagnone e Ferruccio Amendola. E già allora ero come oggi: stessi principi, stessi ideali, stesso modo di prendere la vita. Cominciai a credere in me stesso grazie a due film di Marco Risi: Soldati, un magnifico ruolo drammatico, e Mery per sempre, dove pur essendo romano recitavo in siciliano. «Forse sono bravo davvero pensai -. Forse non se ne accorgono, che non sono un vero attore. E continuano a farmelo fare!».
Divenne anche un sex symbol. Addirittura posò in versione adamitica per un servizio fotografico.
«Tre mesi a dieta, stetti, per prepararmi a quel servizio! Lo feci a Cinecittà, attaccato seminudo alle colonne delle scenografie di Roma antica... Mai divertito tanto in vita mia! Ero vanitoso, lo sono sempre stato: ancora adesso, lo sono. So di piacere alle donne. Che me lo dimostrano in modo anche molto diretto».
L'esperienza da regista sul set de Il Patriarca.
«Non sono un regista che stressa gli attori, facendo ripetere loro la scena quindici volte. Secondo me, già al terzo ciak, spontaneità e freschezza vanno a farsi benedire. Anche perché io lavoro molto sulla recitazione: la chiedo naturale, moderna, credibile. Non amo gli attori-attori, quelli tutti impostati, quelli che si sente che recitano. In Italia gli attori naturali sono tantissimi. Così ho voluto eccellenti professionisti anche per i ruoli minori. Tutti siamo attori, in Italia. Basta guardarsi attorno».
Con qualche inconveniente, magari. Condivide la recenti accuse mosse alla recitazione sussurrata e biascicata, al punto da risultare incomprensibile, degli attori delle fiction?
«(ride, ndr) Condivido. È vero: quello di sussurrare è uno stile recitativo che va molto, oggi. Dilaga in tutte le fiction. Costa meno fatica agli attori e risulta molto autentica.
Ma se ne abusa. Anche mio padre mi diceva Quella battuta buttala via, nel senso di pronunciala come se non la recitassi. Però devi anche farla capire, accidenti! E se biascichi confondi la naturalezza con la sciatteria».
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