«Vi racconto la mia baby gang»

Parla un ragazzino sudamericano dopo gli arresti di Genova e Milano: «Non siamo violenti, solo in gruppo ritroviamo un’identità»

Paola Fucilieri

da Milano

Ore 6.30 di ieri mattina, fermata della metropolitana di piazza Piola a Milano. Juan D., salvadoregno, ha solo 23 anni. Tuttavia lo sguardo senza sorriso, bandana, tatuaggi coloratissimi su braccia scure e nervose sono i segni di una maturità diversa, vissuta secondo parametri e modelli distanti anni luce da quelli della Milano da bere. E al tempo stesso attaccati a questa città come ventose tentacolari. Lo dicono le 27 ordinanze di custodia cautelare per reati che vanno dalla rissa al tentato omicidio, spiccati mercoledì dalla Procura di Milano contro altrettanti giovani - ecuadoriani e peruviani dai 16 ai 23 anni - riuniti in bande che si fanno guerra tra loro per il dominio del territorio: Latin Kings, Soldatos Latinos, Commando.
Juan, però, dice di non essere un balordo. Lui è nato ed è andato a scuola qui. E, con malcelato orgoglio, mentre sfodera un italiano impressionante per proprietà di linguaggio, sostiene che far parte di una banda può essere anche un modo per muoversi insieme in un territorio, per «non sentirsi soli». «Per crescere» come dice lui. Lui che stravede per i Soldatos Latinos ma non ammette di farne parte.
«Da noi le bande si chiamano mara o pandilla. Ma non credete a tutto quello che vi dicono - precisa subito tenendo stretta con una mano la croce che porta al collo -. I giovani che ne fanno parte non sono tutti sbandati in fuga da una società che li rifiuta, non provengono esclusivamente da famiglie disgregate o disadattate. Molti membri di pandillas provengono da famiglie stabili, mentre molti giovani, che hanno alle spalle famiglie disgregate, non rientrano nel circuito delle bande. E poi perchè dare tutta la colpa a famiglie per forza disgregate o alla società straniera in cui ci si trova a vivere. In fondo chi non ha avuto parenti emigranti».
Poi però il ragazzo sfodera quasi un’analisi sociologica soprendente per una ragazzino. E dà un’immagine della guerra tra bande di extracomunitari che assomiglia alla rivolta delle periferie parigine di qualche mese fa. «Ci sono altri fattori che impediscono ai nuclei famigliari di compiere le funzioni di attenzione e protezione di cui i bambini hanno bisogno per crescere. Mai sentito parlare di povertà? Di padri che non possono accudire i loro figli perchè costretti a lavorare troppo, anche 9 ore al giorno? Di donne incapaci di svolgere tutte le funzioni che spetterebbero a una famiglia intera? No, nessuno di noi si vuol prendere una rivincita stando qui, in Italia, piuttosto che altrove. È la povertà, credetemi, la povertà dei nostri paesi d’origine a farci partire già in svantaggio. Ovunque ci troviamo».
E allora che cosa sono queste bande? Anche voi volete sempre indossarsi i panni del vittimismo. E le violenze? Le aggressioni? Le gang armate? «Sono dei punti di riferimento. Molto spesso nelle case dove ci troviamo a vivere abbiamo poco più di tre metri a testa a disposizione. Si finisce a stare tutto il giorno per strada.

E lì si socializza perchè, anche quando la scuola ti espelle, anzichè sembrarti un posto per migliorare ti sembra un luogo ostile. La pandilla diventa così un'alternativa che permette di coprire il vuoto in cui il giovane si trova. La violenza? Basta. Quante volte lo devo ripetere che non siamo tutti delinquenti?».

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