
Mi trovo a Dubai. Non amo uscire di casa, figuriamoci cambiare continente, ma l’ho fatto per amore della mia compagna, Maria Sole, e di mia figlia, Nina Lu. Loro entusiaste di “staccare”, come si dice adesso. Io, invece, non stacco mai. Però fingo. Fingo benissimo. Professionista del distacco apparente, del relax performativo. Siamo finiti nel deserto, che di per sé non sarebbe neanche male, se non fosse per i beduini—o presunti tali—che prendevano a bastonate i cavalli come se fossero tapparelle impazzite. Il sole a picco, la sabbia ovunque: nelle scarpe, negli occhi, nei pensieri. Un clima da forno ventilato con sottofondo di crisi esistenziale. Poi ci siamo rifugiati nel Dubai Mall. Uno dei centri commerciali più grandi del mondo, con oltre 1.200 negozi, un acquario gigantesco, una pista di pattinaggio olimpionica e persino un parco tematico al coperto. Un luogo dove il consumismo raggiunge vette mai esplorate. E io, lo ammetto, amo il consumismo. Lo trovo rassicurante. È come l’infanzia, ma con più luci LED e meno senso di colpa. Comprerei qualsiasi cosa, purché inutile, costosa e presentata con un packaging che sembra il concept di un padiglione della Biennale.
Il traffico è delirante. Per spostarti da una parte all’altra serve tempo, pazienza e Google Maps in modalità mistica. Alcuni edifici sono così grandi che per andare da un’ala all’altra ti ritrovi a percorrere chilometri a piedi sotto aria condizionata glaciale. Ascensori a razzo, scale mobili come serpenti metallici che ti ingoiano e ti sputano in ambienti sempre uguali: boutique di lusso, ristoranti fusion, insegne che lampeggiano come se volessero convincerti che sei felice. E poi la fila. La famosa, lunghissima, spiritualmente inutile fila per salire sul Burj Khalifa. Un’ora di attesa per vedere il mondo da sopra, come se potesse cambiare qualcosa. La torre dove Tom Cruise ha girato Mission: Impossible. Lui, ovviamente, senza fare la fila. Probabilmente è ancora lì, appeso fuori, più rilassato di me.
Con noi ci sono anche Giorgio e Chiara, genitori di un amico di Nina Lu. Sono venuti “per fare compagnia”, ma il dialogo è pari a zero. Non perché siano antipatici, no. Sono gentili, cortesi, presenti. Il problema è che non abbiamo niente da dirci. Proprio niente. Il vuoto comunicativo assoluto. Siamo troppo diversi. O forse, troppo identici al mondo in cui nessuno dice più niente di interessante. Lui però è identico a Hank di Breaking Bad, il cognato poliziotto. E questa cosa mi fa sentire un po’ Walter White. Ma solo un po’. Non so cucinare metanfetamina, purtroppo. E la mia unica amica chimica è alla Festa della Scienza di Foligno, dove tiene conferenze sulla sessualità dei polpi e degli asini nani della Lapponia. Mi manda video in cui accarezza capre filosofi e cita Schopenhauer davanti a un acquario di pesci transessuali. Mi piace? Non mi piace? Non lo so. Adoro che sembri tutto finto. È come essere dentro GTA, ma senza la parte divertente dove puoi investire i passanti. Solo quella dove guidi a caso, ti perdi, e la radio trasmette frasi motivazionali in arabo. E comunque, non sono nemmeno sicuro che i passanti siano reali. Non mi ci sono mai scontrato. Scivolano via come PNG ben programmati. I rider hanno zaini luminosi, perfettamente retroilluminati, con loghi che sembrano progettati dalla NASA. Bellissimi. E anche loro, i rider stessi: in alta risoluzione, come render 3D di se stessi. Non sudano, non sbagliano strada, non sembrano avere passato. Solo una destinazione.
A un certo punto mi sono trovato perso nel Dubai Mall. Perso nel senso esistenziale, ontologico, metafisico. Non trovavo più nessuno. Mi hanno lasciato indietro. Si sono dimenticati di me. Non sono stato al passo. Forse camminavo troppo piano, forse ero distratto da un’insegna luminosa che prometteva “fragranze esperienziali”. Fatto sta che mi sono ritrovato circondato da finti emiri e donne vestite di nero, completamente coperte, di cui si vedono solo gli occhi. All’inizio mi facevano impressione. Lo ammetto. Mi sembravano terroristi. Poi mi è passata. Mi è passata perché la schiena mi faceva troppo male per gestire anche la paranoia. Le gambe non le sentivo più. Non mi ricordavo neppure di averle mai avute, le gambe. Dieci chilometri percorsi dalla mattina. Una maratona nel vuoto. E in quel momento, completamente alienato, ho pensato:
Is this the real life?
Is this just fantasy?
Caught in a landslide,
No escape from reality
Open your eyes,
Look up to the skies and see,
I’m just a poor boy, I need no sympathy,
Because I’m easy come, easy go,
Little high, little low,
Any way the wind blows doesn’t really matter to me, to me.
E no, non era l’inizio di Bohemian Rhapsody. Era solo martedì. Maria Sole e Nina Lu, quando le ho ritrovate, sorridevano. Scattavano foto. Ridono. Forse è questo che conta. Che loro siano felici. Io, intanto, mi domando se anche i cammelli, ogni tanto, vorrebbero solo una sera sul divano, in pigiama, a maledire il mondo. Ma no, a Dubai non si suda. Si evapora con dignità. Tornerò cambiato, ovviamente.
Ma solo nei punti fragili: una vescica plantare, un principio di allucinazione visiva e un nuovo rispetto per i rider LED-powered. Dentro sarò esattamente lo stesso di prima, solo con più dubbi, meno glicemia, e un portachiavi a forma di grattacielo comprato a 89 dirham. E questo, forse, è già qualcosa.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.