La quercia più alta è a maggior rischio fulmini. La torre che svetta, quando crolla, fa il polverone più spettacolare. Non è detto che siano solo odio e acredine a circondare il «cattivo», potente di turno. Invidia e ammirazione si mescolano. Qualcosa di analogo alla «sindrome di Stoccolma», il sequestratore o il carceriere sublimati dalla vittima al piano eroico di padri-padroni, perfino di amanti, con l’attrazione che si accende. Il potere genera sconcerto e contraddizione nei sudditi.
Ne abbiamo un poderoso flash in una scena descritta da Tacito, storico latino. Quando Tiberio impugnò lo scettro di Augusto, da poco scomparso, i senatori gli resero omaggio, sfilando davanti al trono. I loro volti erano maschere contorte. Mezzo viso era ridente, per la nuova elezione. L’altra metà, dolente, per esternare il cordoglio sulla fine del predecessore. Ai cortigiani era richiesto un equilibrismo funambolico, perché troppa gioia poteva essere interpretata come attacco all’istituzione, il sollievo per la fine di una dittatura; il lutto esagerato, al contrario, come preferenza per chi non c’era più.
L’Achab di Melville è una titanica figura di psicopatico, fosco despota della nave e della vita dei suoi. Eppure, quando inchioda all’albero il doblone d’oro - premio per chi avvisterà Moby Dick, la balena bianca - o fa distribuire alla ciurma l’ardente misura di grog, le acclamazioni esplodono, salvo poi tramutarsi in scontento e disapprovazione sotto coperta. Quando l’idolo-mostro declina, si aprono scenari complicati. Può scattare la damnatio memoriae.
Nell’antica Roma era un istituto giuridico. Si eliminava ogni traccia dell’illustre detestato. Nerone ne fece le spese: il suo Colosso (trenta metri di statua all’ingresso della Domus Aurea), fu riciclato dal successore Vespasiano in un’indolore immagine del Sole Invitto: bastò sostituire la testa. Ma anche i monumenti egizi recano le tracce di questa pratica sbrigativa. Faraoni annullati dalle liste onorarie, i loro titoli scalpellati dalle pareti dei templi che avevano fatto erigere.
I capostipiti dei totalitarismi non sono da meno. Il gigantismo iconografico di Saddam Hussein è un cimitero di mutilazioni, sfregi e abbattimenti. Il suo palazzo degli eccessi riadattato a hotel con casa da gioco esclusiva. Può però succedere il contrario. Gli antichi la chiamarono «palinodia», un canto «a rovescio», di riabilitazione e risarcimento del biasimo accumulato sulla persona di spicco quand’era in vita. Il primo scoop fu quello di Elena, la maliarda di Sparta che causò la madre di tutte le guerre. Come pomo della discordia tra Menelao, il marito umiliato, e Paride, l’adultero, tutti la denigravano. Ma della donna erano tutti innamorati. I vecchi di Troia sotto attacco, quando lei passava per strada, sbavavano, mormorando che per una così era giusto - anzi, bello - morire. Un poeta moderno, Ghiannis Ritsos, colse il miscuglio emotivo con un’intuizione folgorante: Elena che passeggia sulle mura assediate, getta rose ai combattenti che la prendono di mira da una parte e dall’altra, ma nessuna freccia la sfiora perché, solo a guardarla, le mani degli uomini tremano e s’impigliano nella corda dell’arco. A freddo, le voci di biasimo erano compatte contro di lei. Finché Stèsicoro di Imera (VII-VI secolo a.C.) cantò controcorrente e compose una palinodia, che funzionò da modello. Elena non era responsabile. L’aveva sviata la dea dell’amore, Afrodite. Chi può mettersi contro una divinità? La guerra era il frutto maligno delle ambizioni maschili: lei andava assolta.
La storiografia è una sfilata infinita di questi ondeggiamenti. Nella tradizione cinese, il primo imperatore, Qin Shi Huang (III secolo a.C.) che diede nome alla nazione, appare di solito come un tiranno brutale, superstizioso, con l’illusione puerile di diventare immortale masticando mercurio e facendosi scortare nell’aldilà da un’armata di soldati di terracotta, sepolti a guardia del mausoleo. Per secretare la sua tomba, non aveva esitato a far sparire architetti e maestranze, a decine di migliaia. Per di più, sarebbe stato un regnante mediocre. Tutte valutazioni di parte confuciana, bastonata da Qin Shi, ma in auge con gli Han, i successori. Circolarono libri propagandistici come I dieci crimini di Qin e Le colpe di Qin: il fondatore dell’impero era reo di lesa maestà nei confronti di Confucio.
Il vento cambiò nei primi decenni del ’900, quando gli intellettuali vicini al Kuomintang, il Partito del popolo, avverso ai «signori della guerra», decise che Quin Shi era il meritorio fondatore dell’indipendenza nazionale, avendo posto la prima pietra alla Grande Muraglia, simbolo di coesione e difesa contro il barbaro esterno. Insomma, il primo eroe degli annali cinesi, di cui Chiang Kai-shek avrebbe ripreso l’opera di riunificatore e pacificatore del Paese. Per i marxisti, venuti dopo, Quin era un egoista corrotto al soldo della nobiltà feudale e del capitalismo mercantile: la sua fine era il primo rintocco della vincente lotta di classe. Ma ecco l’ennesima palinodia. Nel 1972, una sua biografia lo interpreta come luminoso precursore della rivoluzione. La sua politica riformatrice (fine del feudalesimo, la burocrazia dei governatorati civili, la sistemazione di pesi, misure, scrittura) era l’atto di nascita della Cina moderna.
Tornando ai fatti di casa nostra, si pensi ai papi rinascimentali, da Alessandro VI Borgia, l’esteta, il donnaiolo, a Giulio II, il guerriero, il predone. Indegni eredi di Pietro, in una visione religiosa.
Ma se si applicano parametri laici, statisti in linea con l’epoca, uomini capaci di tenere a galla i loro potentati nei conflitti con forze preponderanti. In questo cozzare di idee e di letture, in quest’alternarsi critico di incenso e di fango sui grandi, sta un lato vitale e fazioso della storia: la passione di riappropriarsi del passato.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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