Warum siehst du so traurig aus? «Ma perché hai un’aria tanto triste?», aveva chiesto il bel tipo col pointer alla ragazza che, il collo del dolcevita tirato su fino al naso, le maniche del maglione tirate giù sulle unghie, stava seduta in riva al lago con un libro in mano. Era ferragosto, a Costanza, Bodensee. Dopo tre giorni di clausura, di pioggia ininterrotta, si poteva mettere il naso fuori casa, purché infilato nella lana del golf. C’era freddo. Cigni arruffati. Il vento pettinava l’acqua contropelo. Il grigiore del lago saliva a cancellare la linea del cielo. L’insieme aveva una sua struggente bellezza. Perché tanta tristezza?
Sarà per La malinconia del traduttore. Bel titolo. L’ha scelto Franco Nasi per i suoi racconti appena usciti da Medusa (pagg. 106, euro 11,50) e si vorrebbe rubarglielo. È un titolo bellissimo per un sentimento specialissimo. O è invece una malattia? Non è contagiosa. Neanche stagionale. Era certo che sarebbe esplosa quest’estate sul lago di Costanza, provocata più dall’incontro ravvicinato e prolungato con il carteggio tra Heidegger e Jaspers da riscrivere in italiano che non dai grigiori lacustri e dai rigori tedeschi. Sarebbe scoppiata anche ai tropici. Somiglia alla tristezza dei tropici, dell’antropologo che se ne va in un altro mondo per starne fuori, guardarlo di sbieco, vedere ciò che chi ci vive dentro non riuscirebbe mai a mettere a fuoco.
Per il traduttore non è lo stesso. Si trasferisce sì in un altro clima, e ne subisce la rigidità sulla pelle. Entra in un altro orizzonte di cultura e ci si nasconde dentro, facendone sparire l’estraneità. Si muove tra parole originali e deve prenderle per vere, rispettoso di un autorevole (autoriale) dettato. Non ha come l’etnologo il beneficio della distanza, il dovere di critica, il diritto di pronunciare il suo giudizio o di confessare la sua tristezza. La malinconia è il suo segreto.
All’uomo a passeggio sul lago col cane non l’avrebbe mai detto. Che a quell’ora poteva essere al mare. Che se ne stava andando un’altra estate e non l’aveva neanche vista. Che di stagione in stagione, di traduzione in traduzione, presto sarebbe stata ora di dire «una volta ero una ragazza». «Sei singola, vero? Si vede», le aveva detto un’amica scrittrice. «Quand’è che ti togli di dosso quella faccia da studentessa?», le aveva detto un amico spietato?.
La solitudine del traduttore È la conditio sine qua non: la condizione dello studioso (o studente) mentre studia. Si lavora in silenzio. A casa. Da soli. In assoluta libertà - è questo il bello -, con la totale disponibilità di spazio e tempo. Non si risponde che al proprio senso del dovere - è questo il guaio -, a un’autoimposta disciplina. In mancanza di un orario o posto di lavoro ogni momento, ogni luogo, è buono per lavorare. Il mandato professionale si fa vocazione esistenziale, una missione. O è il contrario? Se ti hanno chiamata per commissionarti una traduzione è perché tu per prima hai detto sono qui. Quando? Molto presto.
La giornata del traduttore Comincia presto, prestissimo. Nell’ora in cui tacciono traffico e telefono. I vicini dormono. A chi non è abituato a esplorare quelle zone del giorno sembra indecente. C’è chi si spinge in là dentro le ore della notte. Ma un punto di equilibrio si trova. Come se alla tensione verso l’estrema concentrazione debba corrispondere una miracolosa distensione del tempo. La giornata si allunga perché tradurre è un lavoro lento. «Una lettura forzatamente rallentata del testo». La forza maggiore che ti frena è quella della scrittura. Potente più dell’urgenza della consegna, della scadenza del contratto, del numero di pagine «da fare» al dì che immancabilmente non si riesce a rispettare, ansia del traduttore... La sua palla al piede (o ancora di salvezza?) è la gravità della parola. Il peso della forma. La funzione poetica, o spessore scabroso del linguaggio su cui non può scivolare via come una comunicazione spedita vorrebbe. È un movimento innaturale. Una malattia, la malinconia della lingua. Che sia una patologia autoimmune protetta dall’epidemia della fretta? Comunque guarisce da sola. Con certi slanci di leggerezza in cui, spento il computer, chiusi i dizionari, si fanno cantare le frasi nella testa. Camminando, pedalando (anche nuotando). Si voltano da tutte le parti finché, quando meno te lo aspetti, trovi il giusto giro di parole. Dov’era?
Sulla scrivania o in biblioteca. In città o sulla spiaggia delle vacanze (vacanze?). A Milano, Costanza, Tübingen, Wilflingen, Silvaplana. Le mete non si scelgono a caso. Una volta là, non occorre accodarsi ai turisti per entrare nella torre della follia di Hölderlin o fotografare la piramide dell’eterno ritorno riprodotta su mille cartoline. Basta stare nei pressi, parlare la lingua, vedere i salici sul Neckar o le cime engadinesi dove Nietzsche concepì il pensiero più audace.
A Wilflingen però l’avevano sorpresa. «Tesoro che c’è?», le aveva chiesto Liselotte, la vedova, quando, entrate assieme nella foresteria del castello, l’aveva sorpresa in lacrime. Era tutto come descritto nelle Cacce sottili. Il tiglio degli Stauffenberg davanti alla finestra. L’archeopterix, l’uccello fossile appeso nella cornice. I volumi di Hamann accanto al tavolo di lavoro. Le scatole entomologiche coi coleotteri spillati, gli orologi a polvere allineati sugli scaffali. Jünger aveva trascritto sulla pagina ciò che lei ne aveva tradotto e che ora ritrovava al proprio posto. Dov’è che il traduttore trova la parola giusta?
L’educazione del traduttore O iniziazione? Esercizio o ascesi? Metodo o regola? Ora et labora. Ma no. A volte la ricerca è caccia, collezionismo: di aggettivi, proverbi, etimi, sinonimi. E la contemplazione ha un che del voyeurismo. Spiando Celan che traduce Eluard, la Bachmann che traduce Ungaretti, Bertolucci Baudelaire, Celati Michaux, o i Salmi Ceronetti, si scoprono tesori proibiti. Gioie di un mestiere che non si fa col cilicio, non è macerazione. Né masturbazione mentale. Quando parla dell’entusiasmo, dell’«orgasmo del traduttore», Quirino Principe, maestro di traduzioni jüngeriane, nomina il migliore antidoto alla malinconia.
La paura del traduttore Viene tutta prima di cominciare. Non tanto per via della mole da affrontare. Cinquecentotrenta pagine dello Heidegger impossibile, incomprensibile, intraducibile le avevano detto quando aveva ventun anni. Non sapeva che ci avrebbe passato i successivi dieci anni. La paura viene prima di prendere la parola. Si deve indovinare l’intonazione, l’altezza della nota, il timbro, il registro. Chi sei tu per dar fiato alle corde? La tua voce non si dovrà sentire. Sarebbe come se il fotografo mettesse le dita sull’obbiettivo o il doppiatore la faccia sul grande schermo. Il giornalista non fa mai notizia e inaudito resti il traduttore.
E sai, caro lettore, stavolta traduttore è il giornalista. La giornalista, la traduttrice. Ero io quella. Volgi se vuoi, questo racconto al femminile, alla prima persona. Prendilo, se ti piace, per un piccolo esercizio di traduzione. Sinceramente tua. A. I.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.