«C'era stato un incendio, e avrebbe potuto verificarsi dovunque. Quindici ragazze fra i tredici e i diciassette anni erano morte calpestate, e cinquantadue erano rimaste ferite, quando il fuoco aveva divorato la loro scuola». Ma no, quella strage del 2002 non avrebbe potuto verificarsi ovunque. «I pompieri dissero alla stampa saudita che la polizia della moralità aveva costretto le ragazze a rimanere dentro l'edificio in fiamme perché non indossavano velo e abaya». Ecco, così Mona Eltahawy, musulmana, spiega un concetto molto semplice: «Tu sei il tuo velo. Il tuo velo ha più valore di te». «Tu» è la donna nei paesi musulmani, che è l'interesse e la preoccupazione di Eltahawy: di origine egiziana, ha vissuto da bambina in Gran Bretagna, da adolescente in Arabia Saudita, poi in Egitto e negli Stati Uniti. Oggi ha 47 anni, è una giornalista che collabora anche con la Bbc e il New York Times e una scrittrice ma, soprattutto, si dichiara una «femminista»: perché il femminismo (in arabo nasawiya, una parola che per molto tempo non esisteva neppure) significa, nel mondo islamico, difesa della sopravvivenza. Un tentativo di tutelarsi da abusi, violenze (la stessa Eltahawy è stata molestata e picchiata), mortificazioni, diritti negati, «guardiani» che controllano e impediscono qualunque attività sociale, mutilazioni genitali ancora diffuse in percentuali agghiaccianti, veli e mantelli, botte, «test di verginità» (è successo anche alle donne che erano in piazza Tahrir per la rivoluzione che ha spodestato Mubarak).
«È impossibile indorare la pillola. Noi donne arabe viviamo in una cultura che ci è fondamentalmente ostile, imposta dal disprezzo maschile. Gli uomini ci odiano perché siamo libere, come recita lo stanco cliché americano post 11 settembre? No. Noi non siamo libere perché gli uomini ci odiano» scrive Eltahawy nel suo libro, appena pubblicato in Italia da Einaudi, che si intitola appunto Perché ci odiano (pagg. 215, euro 17,50), cioè: perché gli uomini islamici odiano le loro donne. È lo stesso titolo di un articolo che l'autrice pubblicò nel 2012 su Foreign Policy e che già allora - spiega - suscitò reazioni sdegnate, perché «la misoginia nel mondo arabo è un argomento esplosivo». Come mai la misoginia è largamente accettata e praticata, ma non se ne può parlare? Eltahawy lo spiega chiaramente: «Da un lato c'è la destra occidentale, bigotta e razzista, che non vede l'ora di sentir criticare quella regione e l'Islam» e, quindi, parlare di violenze, stupri (un dato su tutti: secondo un'inchiesta Onu del 2013, il 99,3 per cento delle egiziane ha subito molestie sessuali nei luoghi pubblici), discriminazioni religiose, sociali e legislative porterebbe argomentazioni facili nelle mani degli avversari. Dall'altro però «ci sono quei liberali occidentali» che criticano l'imperialismo, ma sono «ciechi di fronte all'imperialismo culturale che esercitano quando zittiscono le critiche alla misoginia».
Succede, per esempio, quando il fatto di indossare il velo è considerato una «libera scelta»: Eltahawy, che ha indossato l'hijab a 16 anni e l'ha tolto a 25, fra sensi di colpa e lunghe riflessioni, spiega come non sia affatto una scelta. Perché l'hijab riduce le donne a una cosa sola: l'hijab stesso. E confonderlo nel «magma delle differenze culturali» significa annacquare in esso anche l'odio per le donne. Nelle sue parole: «Il relativismo culturale mi è nemico tanto quanto l'oppressione che combatto all'interno della mia cultura e della mia fede».
Perciò, dice Eltahawy, nei paesi islamici non ci sarà alcuna rivoluzione, fino a che le donne non saranno libere, «finché non avremo abbattuto i Mubarak nelle nostre menti, nelle camere da letto e agli angoli delle vie».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.