Nella notte fra martedì e mercoledì si è conclusa la straordinaria vita terrena di Riccardo Bonacina, settant'anni, grande giornalista, inventore come pochi altri di un nuovo modo di raccontare la realtà. Non ha cercato mai la larga notorietà, nemmeno quando ne ha avuto l'occasione (qualcuno ricorda la sua trasmissione Rai Il coraggio di vivere), nemmeno quando il suo prezzo era alto. Cresciuto nelle file de Il Sabato, settimanale cattolico di battaglia, fondato nel 1978 e chiuso nel 1993, migrò all'inizio degli anni '90 prima a Mediaset e poi alla Rai, dalla quale si staccò nel 1994 per fondare quella che resterà la sua grande opera: la rivista Vita.
Vita apriva un capitolo completamente nuovo nella storia dell'informazione in Italia: nasceva il racconto sociale. Alla guida di un gruppo di eccellenti giornalisti, Riccardo ha cominciato a raccontare il nostro Paese, e in seguito l'Europa e il mondo, dal punto di vista di tutta quella materia oscura della nostra società, ossia di quella umanità, onesta e numerosa, che si dona nel campo del volontariato in tutte le sue declinazioni (onlus, ong, enti religiosi), dell'educazione, della formazione e in altri campi per sostenere la parte più debole e vulnerabile della società. Quando ancora quasi nessuno ne parlava, Riccardo ha sdoganato espressioni come «non profit» e «terzo settore», contribuendo anche a creare una legislazione meno inadeguata in quel campo.
Ha dovuto combattere molti nemici, tanto a destra quanto a sinistra, tanto nel pubblico quanto nel privato, tanto nel mondo cattolico quanto in quello laico: perché chiunque, prima o poi, cerca di comprarti, qualcuno in buona fede, i più in malafede. Pochi capiscono che un racconto libero aiuta la libertà di tante persone che da sole non ce la potrebbero fare.
Ma Riccardo non è soltanto Vita. È stato grazie a lui che, nel 1978, avvenne l'incontro, decisivo per entrambi, tra Giovanni Testori e don Giussani. Nessuno somigliava a Testori come Riccardo: tutti e due anarchici nell'anima, difensori a oltranza della libertà propria e altrui, tutti e due tanto pieni di una fede cristiana incrollabile quanto spregiudicati nella visione della realtà. E questo è, ancora una volta, solo un particolare tra mille.
Ha ragione mia moglie quando dice che Riccardo ha passato tutta la vita obbedendo a un compito, che investiva tutti gli istanti della sua vita, lavoro famiglia vacanze amicizia interessi extracurricolari: come il Teatro. Già malato, come nessun altro Riccardo ha seguito e sostenuto - anche criticamente - la nascita e la crescita dell'esperienza teatrale che io e altri amici (Gabriele Allevi e Giacomino Poretti) abbiamo cercato di promuovere insieme a un gruppo di under 30. Fino a diventare un punto di riferimento fondamentale per tutti loro.
Confesso però, mentre scrivo queste cose, la mia totale inadeguatezza. Non so se avesse ragione Roland Barthes quando scrisse che «si fallisce sempre quando si cerca di parlare di ciò che si ama»: quello che so è che un qualunque bravo giornalista, mettendo insieme qualche notizia d'agenzia, avrebbe disegnato il ritratto pubblico di Riccardo Bonacina molto meglio di me.
Perché Riccardo è stato il grande amico di tutta la mia vita, l'amico con il quale ho costruito tutta la mia esistenza, istante per istante, mattoncino dopo mattoncino, prima da giovane scapestrato e poi da uomo adulto. Quando, 40 anni fa, mi innamorai della donna che poi ho sposato, solo a lui chiesi «secondo te è quella giusta?», e il suo sì sarebbe stato fondamentale anche se poi si fosse rivelato un errore, perché negli anni eroici della gioventù è meglio sbagliare costruendo insieme che fare tutto giusto in solitudine.
E adesso, anche se so che è solo un'impressione, anche se so che passerà e che la vita ricomincerà, a me sembra di non esistere più. Cammino per strada, vado a visitare il feretro, prego con sua moglie e i suoi meravigliosi figli (Paolo, Lucia, Maria, Francesca), vado a fare un paio di cose che lui avrebbe avuto piacere io facessi, e intanto mi sembra di non esserci più. Guardo le automobili, le motociclette, le biciclette, e d'un tratto trovo insensato tutto questo, non capisco perché esistono, perché esiste Milano, vorrei che non ci fosse più niente, perché adesso Riccardo non c'è più e io mi sento un po' più inutile. Ripenso a tutte le vacanze passate insieme, decine e decine di vacanze, e so che non ce ne saranno più, e capisco che farne a meno è più duro del previsto. Sono pensieri passeggeri ma anche salutari e giusti perché mi ricordano chi sono io al difuori di come mi vedo e di come mi voglio.
La vita è strana, e io credo di essere cristiano anche per questo, perché nessuna religione o filosofia al mondo sa comprendere la stranezza della vita meglio del cristianesimo. Noi cristiani non siamo molto sensibili al tema dell'immortalità dell'anima. Ci pensavo mentre guardavo il povero cadavere del mio più grande amico: m'interessa davvero sapere se, in questo momento, lui è in Paradiso? Certo, se un angelo venisse a rassicurarmi ne sarei lieto. Ma quello che m'interessa davvero è poter riabbracciare Riccardo, poter andare con lui in gita da qualche parte, poter parlare di teatro e di poesia, poter mangiare insieme. Questa è la giustizia spiccia che cerco: si chiama Resurrezione della Carne. Questo è ciò che la carne chiede, e grida.
Cristo non ci promette che canteremo nei cori eterni, ma che berremo con Lui vino, vino vero.Ecco, oggi è a questo che penso. Hasta Riccardo, sei stato unico su questa Terra. Adesso cerchiamo come possiamo di andare avanti noi.
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