Vittime di un amore feroce Paolo e Francesca siamo noi

In vista dei 700 anni della morte del poeta, iniziamo le celebrazioni. Con i baci insanguinati di Picca

Vittime di un amore feroce Paolo e Francesca siamo noi

Io non ho mai pensato alla velocità. Non ho mai scommesso una lira sulla velocità. Sono stato semplicemente veloce. Non come i destri e i sinistri di un grande pugile. Né come il gioco di cambio del povero Bruno detto La bestia. Ma ho avuto uno scatto che, a ripensarci, mi si inumidiscono gli occhi: una specie di rasoiata, di veronica, di passo musicale del torero nell'arena. Una brevità riassumibile nell'immagine di un bicchiere che cade e va in frantumi, di un occhio che si stacca dalla sua orbita.

Soltanto quando non si è più giovani si piange per quella velocità che si è portata dentro. Allora si comprende realmente che la velocità è umanamente divina. Incommensurabile. Commovente. Ora che sono sulla Tomba di Dante. Orribile Tomba a forma di Bancomat, in questa viuzza di banche; in questa Ravenna galleggiante sul mestruo, stupendamente affogata dentro il sangue dei polli mutilati da quella domatrice folle della moglie di Giustiniano, percepisco la velocità del Poeta.

Per le vie di Ravenna il mio fantasma di donna cammina tre passi dietro di me. E' assente più che mai. Sembra che abbia lasciato anche lei la sua vita a Gradara, nel Castello dei Malatesta.

Il mio fantasma è incredibile. Se ne frega della velocità di Dante. Eppure, sfiorando con le dita le pareti dei Malatesta, le sono uscite le lacrime. Forse, mi domando, pure lei ha colto la velocità della velocità? Tutto ciò che è prima e ciò che è dopo quel bacio tra Paolo e Francesca? - la bocca mi baciò tutto tremante. Non so se lo ha compreso. Ma sono convinto che quella velocità, non della luce bensì del sangue, è talmente umana che nessuno può misurarla. Su di lei le stesse parole di Dante non dicono nulla. Aprono soltanto una voragine. Spalancano la nuca a una vertigine che proclama il regno dei cieli sulla terra.

Amor, ch'a nullo amato amar perdona, / mi prese del costui piacer sì forte, / che, come vedi, ancor non m'abbandona.

Ma ancora mi chiedo: il mio fantasma piange per la vertigine di Francesca da Rimini e Paolo Maltesta, oppure sta ricordando che nelle nostre campagne, nelle vigne laziali, c'è anche lì un Castello chiamato Malatesta, che custodisce il segreto di una grande passione d'amore?

Intanto, piangente mi ha dato la mano. Per le strade di Ravenna anche noi due siamo «colombe». Allora il mio fantasma tocca le colonne, come donne nude, a Sant'Apollinare in Classe. E nel Mausoleo di Galla Placidia rimane a contemplare il cielo dei cieli: il prototipo universale del cielo dei presepi.

Continua a piangere, però, mentre Teodora la giostrante sgozza polli e il mestruo sommerge Ravenna. Così non mi resta che sfogare la mia ossessione: dov'è quella bestia di Gianciotto? Dove si è rintanato il lezzo di quel miserabile? Il suo fantasma forse abita le stanze del castello Malatesta, nella mia città?

L'ultima volta che venne in città fu a marzo. Antonio Malatesta (non Paolo Malatesta di Dante) era nato nel 1959.

Era venuto al mondo nell'anno giusto per vedere la civiltà contadina e l'Italia per la prima volta decorosamente in camicia bianca. Le camicie peraltro da lui amate.

L'ex signorino Malatesta si era deciso a regalare il suo rubino di quattro carati alla giovane sposa. Era, questo, un anello al quale teneva più dei suoi occhi.

Gli era stato donato dalla madre venticinque anni prima, quando, insieme alla pietra rossa come Marte e come il sangue dei piccioni, aveva ereditato una proprietà di cinquecento ettari di vigneti e uliveti e il Castello, appunto, Malatesta: come il suo nome, quello di suo padre, che era morto in un incidente aereo, e quello di suo nonno e del bisnonno, il quale riposava nella tomba mezza nascosta sotto il roseto del giardino.

L'anello di rubino, Antonio Malatesta, l'avrebbe voluto donare al suo primo figlio, che ora sapeva essere una figlia la quale sarebbe nata in agosto. Ma, poi, aveva riflettuto sulla felicità. Sulla felicità che gli aveva offerto la sua sposina di appena diciott'anni, quando lui, uomo strafatto da un pezzo, non ci credeva più nell'amore. E invece ora era felice.

Sull'anello di rubino, proprio un anno esatto prima, si era creato un piccolo giallo. Malatesta, nel riordinare gli ori dell'eredità, aveva chiesto a un suo amico orafo una stima per catalogare i vari oggetti. Questo suo amico lo aveva indirizzato da un gemmologo, a sua volta amico fidato, il quale, più di ogni altro esperto, avrebbe dato a ogni singolo pezzo il giusto valore. Così, un pomeriggio, Antonio Malatesta, più pigro del solito (vestito dimessamente, senza stivali, con una tuta Wrangler con il cappuccio, un paio di Nike ai piedi, la barba lunga, un giaccone marrone), si era avviato nella città di L., dove il bravissimo gemmologo amico dell'amico, avrebbe soprattutto riconfermato il valore anche economico del rubino.

Insomma, tra il Malatesta e il gemmologo accadde uno strano incontro: si verificò cioè uno di quei soliti, stupidelli equivoci. Malatesta del gemmologo si fece immediatamente un'idea curiosa. Come gli strinse la mano il giovane gli parve uno di quei tanti superbetti con le classiche scarpe troppo lucide ai piedi. L'esperto di pietre, di rimando, pensò che il Malatesta fosse uno dei delinquenti che quotidianamente gli bussavano al suo bunker per smerciare il bottino.

Quando Antonio Malatesta tirò fuori dalle tasche gli astucci dicendo: «Sono l'eredità della mia mamma», confessando lealmente e infantilmente la provenienza dei gioielli, il gemmologo pensò fra sé e sé: «Questo è il solito ladro che mi tocca sopportare con le sue solite bugie scontate e ridicole». Era fatta: non si sarebbero mai capiti. Poi il gemmologo gli aveva detto: «Si accomodi». E intanto, chiuso a chiave dietro a una porta, aveva cercato di chiamare al telefono i carabinieri che avrebbero sistemato loro la faccenda di «questo stronzo, ennesimo stronzo di ladruncolo che vorrebbe fregare proprio me».

La fortuna decise per Antonio Malatesta: il gemmologo non trovò i carabinieri. Pertanto, ricomparso da dietro la porta d'acciaio, gli dichiarò che i preziosi erano di poco valore e che soprattutto il rubino non era rubino bensì un pezzo di vetro da quattro carati, cosa che aveva osservato chiaramente con la lente. Aveva visto bene le bolle che il vetro aveva. «Perché le bolle», gli spiegò, «non nascono nelle pietre autentiche, ma soltanto nel vetro».

Antonio Malatesta non si era ribellato di fronte a questo sciocco. E con signorilità aveva salutato e era sparito.

Dopo qualche settimana, comunque, l'equivoco si chiarì definitivamente, perché il comune amico, l'amico gioielliere epperò non stimatore, aveva appreso tutta la faccenda dal gemmologo. Naturalmente, quest'ultimo, avendo premura di chiarire con Antonio, gli aveva spiegato che i suoi gioielli erano autentici e che la mamma dunque non gli aveva lasciato in eredità un sacco di vetri e che il rubino era la gemma migliore. Senza ombra di dubbio: suonava quattro carati tondi tondi. E si era scusato mille volte, portandogli le scuse dello stesso gemmologo che lo aveva scambiato per un delinquente abituale.

A chiusura dell'equivoco i due amici si erano fatti una risata, come per sottolineare in quali storie sceme uno può inciampare nella vita. E poi Antonio Malatesta, andando a trovare una poetessa di gran gusto, sua conoscente, aveva ricevuto ampie considerazioni sull'anello di rubino che, alla donna, sembrava «birmano». Quindi ora, ora che era marzo, aveva bene pensato di comprare in città una scatolina a forma di conchiglia e rivestita di velluto nero per custodirci il rubino, perché ad aprile sarebbe stato il compleanno della sua sposina. Diciotto anni. Che ad agosto si sarebbero sommati a una eternità: grande come il cielo rosato del Lazio, come il celestino delicatissimo del cielo ondulato e dipinto che stava sopra le sue terre. Nell'attesa, soggiogato dalla felicità, Antonio Malatesta aveva anche abbandonato i suoi maialini. Oramai erano cresciuti gli animali color salmone, erano diventati adulti, zannuti e sporchi di fango. Antonio non li aveva liberati per la campagna come aveva fatto negli anni precedenti. Perché Malatesta prima allevava come bimbi in fasce i maialini, poi, quando li vedeva un po' feroci per combattere da soli contro il mondo, gli concedeva la libertà di scorrazzare per le campagne e infine di perdersi dove meglio gli pareva. Ma questo era un anno speciale. Non aveva più la testa per niente. Non ricordava più niente. Se non la gioia. La gioia che lo avrebbe fatto impazzire da lì a un mese, da lì a pochi mesi. Dunque i maiali erano stati dimenticati nella porcilaia e, poverini, anche le loro urla lanciate per la fame erano spesso dimenticate perché un po' tutti erano indaffarati in altri cento preparativi. Anche Marco Gnotti, il giovane factotum di casa, certo non poteva interessarsi a loro, né udire il grugnito sempre più imbestialito degli animali.

Fu una sciagura. Eppoi un morire lento. La morte velocissima dell'anima.

Antonio Malatesta vide Marco Gnotti possedere colei che ad agosto gli avrebbe dato una figlia. Il giovane, la sposina Malatesta, la teneva ferma per i capelli. E con il sesso la spingeva tanto forte che suo marito rimase come impietrito dentro il suo pensiero: «La sfonda. Così le schiatta in grembo la mia figliola». Poi scattò come una furia.

Si slacciò la cinghia dei pantaloni. E con essa li afferrò tutt'e due per il collo. Impazzito dal dolore si andava ripetendo: «E se non è più mia figlia, chi sarà allora? E se non è stata mia, di chi è stata?». Li trascinò fuori dalla cucina. A lui gli lanciò quattro cinque calci in mezzo alle gambe. Poi proseguì con forza raddoppiata. Continuò a trascinarli verso il porcile. Poi ce li spinse dentro a calci.

I maiali non erano più porcellini color salmone. Erano bestie affamate. Animali che non mangiavano se non un po' della loro stessa merda da settimane.

I porci cominciarono finalmente a mangiare. Azzannavano la carne come se rovistassero nella scodella. Antonio Malatesta, con la forcina in pugno, proteggeva il loro pasto. Imperterrito a ogni tentativo di fuga, del cibo umano, lo scaraventava nella tinozza già colma di sangue e di feci. Poi, quando i corpi degli adulteri furono più stanchi, sfiancati dai morsi dei maiali, incominciò a riempire secchi di acqua fresca. Li lanciava sui due. Voleva smacchiarli del sangue.

Desiderava bene osservare l'arrivo della morte. E la morte giunse veloce senza che neppure lui se ne accorgesse. Fu velocissima come la luce. Quanto i baci che aveva scambiato con le labbra, con le labbra dolci della sua sposina nel giorno del matrimonio.

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