Vittorio, io ti comprendo e ti amo oltre la ragione

La sorella Elisabetta spiega il rapporto (a volte conflittuale ma profondissimo) con suo fratello

Vittorio, io ti comprendo e ti amo oltre la ragione

Di Vittorio conosco troppo e troppo poco. Il nostro legame ci precede, come spesso accade nelle cose importanti della vita. Precede la nostra volontà e precede la nostra consapevolezza. Non c'è merito. La visione originaria del nostro rapporto, sin dal suo inizio, sta nella memoria di chi non c'è più, dei nostri genitori. E non nella nostra. Questo non voluto e non saputo è però tutt'altro che un vuoto, un mondo perduto o oscuro. È un passato che agisce sempre tra me e lui. E agisce nel rapporto che ciascuno di noi ha con gli altri. Io porto Vittorio con me anche quando lui non c'è. Questo abbraccio silenzioso è ciò che mi permette di dire di conoscere mio fratello, di (pensare di) prevedere come reagirà, se sarà felice o se sarà contrariato per questo o quell'accidente della vita. Conosco bene, ma troppo poco Vittorio. Le nostre vite sono corse, e in gran parte, corrono, su binari distinti, per lungo tempo separati. E se negli ultimi anni i nostri percorsi si sono più spesso incrociati, mi rendo conto che una grande parte della sua vita, dei suoi movimenti, delle sue conoscenze, dei suoi incontri non l'ho neppure sfiorata. Una parte cospicua, che coincide più o meno con gli anni della mia formazione professionale, a Milano.

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Insomma, di Vittorio non so. Eppure so di lui quanto nessuno potrà mai sapere. Qualcosa di questo dilemma viene in chiaro leggendo una frase lapidaria di Carmelo Bene, contenuta in un libro che pubblicai diversi anni or sono, Vita di Carmelo Bene, scritto insieme a Giancarlo Dotto. Giovane editor, negli anni Novanta, feci una proposta rivoluzionaria a Carmelo Bene. I suoi scritti erano in gran parte dispersi o fuori catalogo, e gli proposi di raccoglierli in un volume unico nella collana dei Classici Bompiani. I Classici erano nati alla Bompiani - grazie a Mario Andreose - per ospitare le opere in raccolta di Alberto Moravia e sottrarlo così alle lusinghe dei Meridiani Mondadori. E poi, con Mario, avevamo sedotto Leonardo Sciascia, Marguerite Yourcenar, gli aventi diritto di Brancati e di Eliot per fare alcuni nomi. Le collane di classici allora come ora, hanno la funzione di consacrare, non di decidere o inventare, lo status di classico della Letteratura. Lo stavo proponendo a un uomo di teatro, non certo riconosciuto per la sua opera letteraria, di considerarsi un classico, senza aspettare l'unzione della società letteraria. Una impresa rivoluzionaria in tempi in cui la critica aveva un peso. La mia proposta evidentemente gli piacque, suscitando in lui una serie di posture retoriche divenute celebri: «Sono un classico vivente» oppure, all'opposto «Sono già morto», sottointendendo che era invulnerabile alle critiche.

Ma, soprattutto, quella proposta - e le altre nostre collaborazioni editoriali, tutte improntate alla rivoluzione di schemi prestabiliti (nei formati, nei generi, nella tipografia) - lo legarono a me e alla mia famiglia, intuendo probabilmente la costante deviazione dalla normalità che animava Ro Ferrarese. La Rina - che mi accompagnò sovente a Otranto, oltre che a Roma, nella sua casa su Viale Aventino, a trovare Carmelo - amava ricordare che lui apostrofava, con un misto di euforia e approvazione la sua continua mobilità: «Dove vai Zingara, stai qui con me!». Insomma Carmelo, con Luisa Viglietti, aveva non solo imparato a conoscere me, ma, in me, la cifra esatta di tutta la mia famiglia. Vittorio penso lo conoscesse già per altre vie (tanto per ribadire quanto poco so delle vie di Vittorio). Questa situazione psicologica è all'origine di quanto Carmelo Bene scrisse della mia famiglia, un ritratto ancora ineguagliato: «La mia avversione per la famiglia esclude un'eccezione riservata a casa Sgarbi: sono tutti pazzi, vivaddio, ma è un nucleo (quel che conta) di persone, dico persone che, vincolate da reciprocità affettiva, vivono una rarissima autonomia individuale».

Roberto Calasso in uno dei suoi ultimi libri, Allucinazioni americane, riporta la storia di Rabbi Eisik. Rabbi Eisik fa spesso un sogno in cui viene invitato a recarsi a Praga, dove, sotto il ponte del castello del re boemo, troverà un tesoro. Eisik si reca a Praga, arriva nelle vicinanze del ponte del castello, costantemente presidiato da una guardia. Non si scoraggia, e continua a girare lì intorno, finché la guardia non gli chiede spiegazioni. E il rabbino gli racconta il suo sogno. La guardia sorride, schernendo Eisik. «Guarda che, se dovessimo credere ai sogni, in questo momento starei facendo un viaggio che è l'inverso del tuo». E gli racconta che un sogno lo invita spesso a recarsi a Cracovia, presso la casa del Rabbino Eisik, dove, dietro la stufa, si troverebbe un tesoro. Eisik lo ascolta in silenzio, torna a casa sua, smuove la stufa e trova il tesoro. Questa storia non vuole semplicemente dire - scrive Calasso - che il tesoro è più vicino di quanto sospettiamo. Ma intende dire che è uno straniero a indicarci il luogo del tesoro. Lo straniero di casa Sgarbi è Carmelo Bene. Egli indica nell'essere pazzi («vivaddio») il collante di noi Sgarbi (e di noi Sgarbi con lui, Carmelo Bene). Follia è una parola che non si riferisce a qualcosa di preciso, indica un modo di essere, una irregolarità di fondo che si manifesta nella quotidianità. Non ha un significato positivo, indicando piuttosto qualcosa che non si è e non si fa. Tanto è vero, aggiunge Carmelo, che siamo tutti autonomi, tutti diversi.

Lo era mia madre, sovranamente indipendente e autonoma da tutti noi, pur se, di tutti noi, in particolare modo di Vittorio, si è occupata e preoccupata. Silenziosamente indipendente era mio padre, sempre un passo di lato rispetto alla nostra esuberanza, che tutto ha trattenuto fino all'età di novanta anni, quando tutto ha riversato nei suoi bellissimi libri, specchio delle nostre vite che aveva filmato e montato in forma di parole. Romanticamente e intransigentemente indipendente Vittorio: alcuni, non solo i suoi avversari, lo direbbero egoista. Io so che è una persona di grande generosità. Lui è tra i pochi che conosco capace di essere «qualcosa fino in fondo», direbbe Kenneth Patchen, capace di assoluti e di assolutizzare. Quanto persegue lo ritiene a tal punto un assoluto da non potere credere (e sopportare) che esso non venga condiviso. (Mi rendo conto della pericolosità di questa posizione intellettuale, ma Vittorio ha sempre vissuto pericolosamente.) Così, seguendo la luce della sua passione, ha stravolto la vita dei suoi genitori, li ha rieducati a una nuova giovinezza (persino suo padre, in fondo), ha stravolto una villa di campagna rendendola una di quelle quadrerie dipinte da Panini, e ha aperto a tutti noi orizzonti straordinariamente ampi. Tutto questo ha avuto un prezzo, ma lui ha convinto i suoi genitori di quanto era profondamente convinto lui stesso: che fosse giusto pagare qualsiasi prezzo per l'arte e la sua collezione. Indipendente io, infine, «sorella di Vittorio», cercando di mantenere un'equidistanza tra amore per mio fratello, persino riconoscenza per quanto mi insegnava, e consapevolezza di dovere rimarcare la mia personalità e affermarla in un mondo complesso come quello editoriale e culturale in generale (riuscendoci, e va detto con orgoglio, perché non era facile). Tutta questa autonomia, scrive Carmelo, è pervasa da una profonda reciprocità affettiva, quasi che ne fosse il collante. Anche «affetto» è una parola che suona strana nella penna di Carmelo Bene.

I rapporti tra mio fratello e me hanno momenti di violenza verbale qualche volta accesa, da fare impallidire qualsivoglia forma affettiva. L'affetto - soprattutto per Carmelo - doveva essere qualcosa di diverso. Da parte mia assomiglia piuttosto a una comprensione a priori di quanto Vittorio fa e dice. La follia che ha sempre animato la mia famiglia - sempre per stare nelle parole di Carmelo Bene - mi porta a capire di Vittorio atteggiamenti che per altri sarebbero e sono incomprensibili. Anche per la Rina accadeva così nei suoi confronti. E in fondo, io stessa avevo un analogo atteggiamento nei confronti di mia madre. Comprendere non vuol dire condividere quanto Vittorio dice o fa. Anzi, a volte è il contrario. Vuol dire comprenderlo oltre il ragionevole. (E questo è amore). Il ragionevole è il limite su cui per lo più ci si attesta per pigrizia, mancanza di coraggio, comodità. La follia che accomuna «casa Sgarbi» detta la linea: è una apertura di credito irragionevole per una posizione che - seppure ora non condivisa - magari un giorno manifesterà le proprie ragioni, se non la propria verità. O forse non le manifesterà mai e comunque si sarà lì ad attenderle.

Nel frattempo mi premuro di dire a mio fratello che quella posizione per me è sbagliata, e magari nasce un alterco, e per giorni e settimane smettiamo di parlarci. Ma io so che, in fondo, c'è una irragionevole ragione che motiva quella posizione, che ora non vedo, ma che c'è, ed è nobile. A dire il vero, nel computo matematico delle esperienze vissute ho visto emergere quella ragione più volte di quanto quella ragione sia rimasta nascosta. Ecco, quando mi penso sorella di Vittorio penso a quella ragione irragionevole che mi lega a lui. Che è la follia di cui parla Carmelo Bene, e che accomunava a me e Vittorio, la Rina e Nino.

Che è quel mondo ancestrale, il liquido amniotico che precede la consapevolezza di essere figli degli stessi genitori. E che è anche, per me - perché c'è, indubbiamente - la ammirazione di quanto Vittorio continua a fare, giorno per giorno, nella sua vita, sorprendendomi.

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