Ha senso collezionare opere d'arte? Non solo rispetto al gusto e alle scelte, non solo rispetto alla difficoltà della ricerca (per altro, nel mio caso, semplificata dall'ampiezza degli interessi: per me la bellezza non è né rara né difficile, e mi muovo soltanto nel mondo occidentale, inviso a Yale), ma rispetto al fatto che il nostro tempo è breve.
Per convivere con le persone che abbiamo convocato, intendendo per «persone» gli autori dei dipinti e delle sculture che in loro continuano a vivere. Rispetto a ogni altro oggetto, le opere d'arte hanno un'anima. Questa si impiglia nelle tele, resiste nelle tavole, agita la materia delle sculture, ma esse aumentano e il tempo diminuisce. Alcune non le vedo da anni, e non avrò che pochi minuti per intrattenermi con loro. È dunque un desiderio morboso e vano aver pensato di possederle? Eppure fermarsi è impossibile, perché il fine non è averle, ma salvarle, proteggerle, tenerle in un recinto i cui confini sono quelli della scoperta, del gusto, della conoscenza. Quale sarebbe l'alternativa? Pubblicarle? Esporle in una mostra? Contenersi della funzione primaria dello storico dell'arte che studia, pubblica, scopre? In quel caso tutto quel danaro che io ho presunto, come ho detto, di trasformare in spirito, acquistando reliquie di vite perdute nelle quali risiede l'anima ascosa ma non dissolta degli artisti, come lo avrei impiegato? Depositandolo in banca? Acquistando azioni? Comprando case? Non conosco impiego del denaro più logico e conseguente di quello per acquistare ciò che, fino a un attimo prima, non esiste, che non sai dove trovare. Perché non si trova ciò che si cerca, ma si cerca ciò che si trova seguendo il caso e il destino. Perché ciò che si trova è, per sua natura, introvabile. Non sai dov'è, non puoi prevederlo, non puoi neppure desiderarlo, salvo che tu non ti muova verso ciò che appartiene ad altri e che per imprevedibili ragioni si rende disponibile.
Quando acquistai il Ritratto di Francesco Righetti del Guercino in un'asta a Londra, un dipinto che ben conoscevo e che sapevo abitare al Kimbell Art Museum di Forth Worth in Texas, non volevo credere ai miei occhi. Comprare da un museo americano! Non potevo immaginare che quella postazione così salda potesse essere compromessa dal capriccio o dalla irritazione di un collezionista, e anche conservatore del museo, Edmund P. Pillsbury il quale, nel 1991, lo aveva depositato per festeggiare i 20 anni della fondazione del Museo. Chissà cos'era capitato, nel 2004, quando inopinatamente Pillsbury decise di ritirarlo e metterlo all'asta! Così, oltre al piacere di vederlo, ora posso anche mostrare l'orgoglio di averlo riportato a casa, nella stessa provincia dov'era stato concepito, a Cento, sempre nel ferrarese. Sono colpi di fortuna e bizzarrie del caso.
Così mi è capitato di recente, acquistando a Vienna un raro dipinto, non vincolato, della grande collezione Molinari Pradelli. Il suo destino può essere un monito. La collezione risponde certamente a un gusto sofisticato, manifestato in Italia in tempi precoci, negli anni '60. Molinari Pradelli, che io ho ben conosciuto, è morto nel 1996. La sua raccolta vive per lui. Un provvidenziale vincolo non richiesto, com'è nel mio caso per cinquecento dipinti e sculture della Collezione Cavallini Sgarbi, ha tenuto insieme le opere più importanti che gli occhi di Molinari Pradelli avevano incrociato. È un primo, pur insufficiente, passaggio. Perché, comunque, le opere sono rimaste nella sua casa, sotto l'occhio vigile della moglie; ma un po' orfane, non tanto di lui, quanto di sempre nuovi testimoni curiosi della loro esistenza, che sappiano dove vederle senza dover prendere appuntamento per una visita riservata, tanto sperata quanto esclusiva. L'opera di Molinari Pradelli sarà compiuta quando i suoi dipinti potranno essere visibili in una sede pubblica. Che senso ha avuto dunque acquistarli? Singolarmente, nessuno. Nel loro insieme, la definizione di una autobiografia per immagini, il racconto di una sensibilità e la configurazione di un gusto che, nel caso di Molinari Pradelli, coincide con la riscoperta di Guido Cagnacci, per cui il suo caldo e luminoso Ratto d'Europa è essenziale, e con una intensa passione per le nature morte del '600. Alla luce di questo, la sua scomparsa non è la fine di un rapporto, ma la consacrazione di una storia personale che diventa un bene collettivo. In questo, il collezionista è l'opposto dell'antiquario: non cede ma raccoglie, e non per sé ma perché resti memoria di sé.
Alla fine, parlando della sua grande biblioteca, cresciuta attraverso una fervida passione, inarrestabile e incontenibile, in un ritmo che ha una perfetta corrispondenza con la vita, la risposta l'ha data Umberto Eco: «Per quel che concerne la mia collezione, ovviamente non vorrei che venisse dispersa. La mia famiglia potrà donarla a una biblioteca pubblica o venderla attraverso un'asta. In questo caso dovrebbe essere venduta nella sua completezza, a una Università. È questa l'unica cosa che mi interessa». In questo desiderio Eco è stato favorito dal vincolo che impedisce la scellerata, e certamente più redditizia, vendita dei singoli libri, sottraendoli alla comunità spirituale cui appartengono, che è il pensiero stesso di Eco, espresso non nei libri scritti, ma nei libri scelti da lui. Quindi, anche se non ha logica e futuro, non ha nondimeno senso rinunciare al destino del collezionista. Fermarsi vorrebbe dire morire, perdere le ragioni stesse dell'esistenza, dichiararsi demotivati. La passione del collezionista coincide con la sua vita, la conclusione e la dispersione eventuale sono avvertimenti di morte. Neanche il tempo breve della vita può sollevare un collezionista dal cercare nuove prede e nuovi approdi che, aumentando, riducono il tempo della confidenza e convivenza con loro.
Queste riflessioni, latenti nell'attività perentoria e motivata del collezionista, sono state favorite da un'occasione gradita, più di altre analoghe e precedenti: l'allestimento di una parte della Collezione Cavallini Sgarbi nel Palazzo Vescovile di Portogruaro, con il catalogo «familiare» della Nave di Teseo. Una occasione più virtuosa che rara, nello spirito sopra descritto, con il vantaggio di aver tentato di orientarlo. Intanto, l'accordo chiuso con il Comune di Ferrara per destinare le cinquecento opere vincolate, in cinque tempi, nelle sale del Castello di Ferrara, in parallelo con la programmazione di «Ferrara Arte», da me presieduta, di mostre di artisti ferraresi. Si inizia l'8 febbraio con Gaetano Previati, per proseguire con Giovanni Battista Crema, Arrigo Minerbi, Leopoldo Cicognara e Canova, Gerolamo da Carpi, Guercino, Scarsellino. Poi, l'esposizione di una selezione delle opere in diverse sedi, per evitare che esse riposino in un deposito, sottratte al pubblico godimento per cui sono state concepite, senza garantire quello provato. Il tour iniziò qualche anno fa con un percorso internazionale dapprima a Burgos, poi a Cáceres, in Spagna, poi a Città del Messico. Sono seguite in Italia le ampie esposizioni di Osimo e di Ferrara e quelle più circoscritte di Cortina, di Trieste, di Novara, di Castel Caldes e ora di Portogruaro. Si annunciano quelle prossime all'Accademia Albertina di Torino e in Sicilia. A queste tappe esclusive si aggiungono quelle miste con altre collezioni, di Napoli, Catania e Salò.
Viaggiano, dunque, queste opere; e la meta più alta sarà in maggio la presenza, al museo del Louvre, nella mostra «Le Corps et l'Âme», del San Domenico di Nicolò dell'Arca, il ritrovamento più importante della mia lunga caccia. La novità di queste riflessioni riposa nella sensazione che ho avuto, nelle stanze del bel palazzo vescovile di Portogruaro, di una collocazione ideale e particolarmente felice di quelle opere come se fossero nate, oltre che per rappresentare il mio percorso spirituale, per stare su quelle pareti, a quell'altezza, con quelle luci, stabilendo dialoghi tra Johannes Hispanus e Nicola Pisano; tra Boccaccio Boccaccino e Ortolano; tra Lorenzo Lotto, Guercino e Passerotti, di cui i ritratti indicano stati d'animo e pensieri diversi di una comune verità interiore; tra Morazzone e Cagnacci, nei nudi femminili; tra Livio Mehus e Sebastiano Mazzoni; tra Appiani e Hayez. Volti, racconti, moniti. Sussurri nelle silenziose stanze.
Quanto assomiglia una collezione a chi l'ha costituita? Se ripenso alle origini dell'impresa, fatico a credere che mi sia stato consentito, nell'arco di nemmeno quarant'anni, con l'amorevole attenzione dei miei genitori Rina e Nino, partecipi e stupiti, di trovare le opere degli autori che hanno vissuto con me, che mi hanno accompagnato in un ritmo vertiginoso.
Noi siamo quelli che eravamo quando iniziammo questo cammino, o siamo diventati altri? Tutto ciò che ho desiderato ho trovato, con una soddisfazione che la ricchezza non può dare: convivere con gli spiriti di artisti che parlano e respirano con me, anime sensibili e corpi viventi.
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