Il vizio buonista che vuol cancellare le nostre identità

Le comunità culturali esistono ma la sinistra accusa di razzismo chiunque osi difenderle. Le radici dei popoli non vengono riconosciute, conta solo la società globale. L'integrazione che nega le differenze finisce col diventare un'assimilazione forzata

Il vizio buonista che vuol cancellare le nostre identità

In Italia si dibatte spesso sull’immigrazione, meno spesso sul comunitarismo, dibattito invece estremamente diffuso in Francia, dove finisce col confondersi con un altro dibattito: integrare gli immigrati significa assimilarli?

A destra e a sinistra, all’estrema destra e all’estrema sinistra, e beninteso al centro, in Francia si denuncia oggi il comunitarismo etnico come una minaccia: nel discorso pubblico è la figura da respingere, la causa delegittimante. Ma pochi precisano che cosa intendano con comunitarismo. Il non definirlo favorisce l’unanimità. Ma in politica l’unanimità è generalmente sospetta. Proviamo a vederci più chiaro.

Denunciare il comunitarismo etnico è per la verità del tutto naturale per i fautori del repubblicanismo (o nazional-repubblicanismo) alla francese. Dalla rivoluzione del 1789, essi hanno ereditato l’idea che la nazione sia un tutt’uno indivisibile, da dirigere da un centro onnipotente, equidistante da ogni sua parte. Repubblicanismo è qui sinonimo di giacobinismo, che affonda le radici nella tendenza, già dell’Ancien Régime, a centralizzare un potere la cui sovranità era anche considerata, dopo Jean Bodin, una e indivisibile. Questo modo di concepire la vita politica esclude la sovranità condivisa (o ripartita) e il principio di sussidiarietà (o di competenza sufficiente). Facendo della «neutralità» la principale caratteristica della dimensione pubblica, si esclude anche il pubblico riconoscimento di identità regionali, lingue e costumi particolari, modi di vita e valori condivisi tipici di una parte soltanto dei cittadini.

Squalificate da un’unica istanza sovrastante, nel migliore dei casi tali differenze si riversano sulla sfera privata, sono cioè indotte alla discrezione, anzi all’invisibilità. In tale ottica, integrare gli immigrati è necessariamente sinonimo d’assimilazione, come la nazionalità è sinonimo di cittadinanza. La Repubblica «procedurale» non vuol riconoscere le comunità; riconosce solo gli individui e li integra, assimilandoli, perciò rifiuta di «differenziare» (distinguere) i cittadini secondo criteri etnici e religiosi: l’individuo sconta l’assimilazione con l’oblio delle radici.

Il concetto di comunità è vecchio quanto la filosofia politica. Risale almeno ad Aristotele. Ancor oggi, nel Nord America, i principali avversari del liberalismo (Charles Taylor, Michael Sandel) si dicono comunitaristi. Tradizionalmente, gli avversari della filosofia dei Lumi aderiscono a una concezione del fatto sociale come comunità più che come società. La dicotomia comunità/società è stata studiata da vari autori, a partire da Ferdinand Tönnies. La comunità ha carattere organico, olistico. È un tutto, la cui portata eccede quella delle parti: solidarietà e aiuto reciproco vi si sviluppano dal concetto di bene comune, non distribuito ugualmente fra tutti, ma di cui si gode subito, prima della spartizione. Invece la società si definisce fondamentalmente come somma d’individui: risulta dalla volontà razionale e si ordina attorno all’idea di contratto, perché i componenti della società decidono di vivere insieme, non per comuni valori, ma per reciproci interessi.

Storicamente, la filosofia dei Lumi ha soprattutto attaccato le comunità organiche, denunciandone il modo di vita come intriso di «superstizioni» e «pregiudizi», per sostituirvi la società degli individui. L’idea centrale era che l’individuo non esiste sulla base delle appartenenze, ma indipendentemente da loro, visione astratta d’un soggetto «disimpegnato», anteriore ai fini, che è anche la base dell’ideologia dei diritti dell’uomo. Portata da una versione profana dell’ideologia dello Stesso, s’è così formata la teoria moderna che definisce l’umanità come sradicamento o strappo da ogni tradizione.
La denuncia attuale del comunitarismo, che mescola critica delle minoranze etniche e critica del principio anti-individualista comunitario, si pone in diretta derivazione da questa filosofia, principale matrice dell’ideologia individualistica liberale e il cui argomentare, ieri usato contro i popoli minoritari della Francia (e contro ogni tipo di rivolta popolare), è oggi usato di nuovo, in pratica senza cambiamenti, contro le minoranze frutto dell’immigrazione. La denuncia «repubblicana» del comunitarismo riduce l’appartenenza del cittadino all’adesione a principi astratti. Equivale al «patriottismo della Costituzione» auspicato da Jürgen Habermas sulla base della sua teoria della ragione «comunicativa». Sotto l’apparenza della denuncia di gruppi autocentrici, si afferma così l’etnocentrismo nazionale. Ne sono simboli il persistente rifiuto francese di firmare la Carta di difesa delle lingue nazionali o minoritarie e la negazione dell’esistenza del popolo corso.

La politica è detta l’arte del possibile. Ordinata solo attorno a principi astratti o pie intenzioni, la politica «ideale» è un’antipolitica. La grande dote del politico è il realismo. Da questo punto di vista, la denuncia del comunitarismo deriva dall’accecamento volontario. Si agisce come se le comunità non ci fossero o si decide di non vederle, mentre esistono e la loro esistenza è lampante.

La stessa preoccupazione di realismo dovrebbe far constatare che il modello dell’assimilazione individuale non funziona più, innanzitutto perché oggi i rapporti sociali si costruiscono fuori dallo Stato, poi perché l’attuale immigrazione, per carattere e ampiezza, non è più compatibile col modello nazional-repubblicano d’integrazione.
Le comunità esistono. Perché non riconoscerle?
(Traduzione di Maurizio Cabona)

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