La vocazione di Fontana: una carriera in "panca"

Un libro racconta la storia di questo portiere di riserva: fede granata, professione eterno dodicesimo. Sognava di vestire la maglia di Bacigalupo ma ha sempre guardato gli altri in campo

La vocazione di Fontana: una carriera in "panca"

È più forte di lui. Non appena vede una panchina libera, la occupa subito. Pensionato affetto da lombo-sciatalgia, penserete voi. No, portiere di riserva del Torino. Ma può un secondo portiere trasformarsi nel numero uno dei tifosi? A leggere la storia di Alberto Fontana la risposta è sì. Fontana ha sempre fatto la stessa professione: il dodicesimo. E ha fatto anche una professione di fede: il Toro. L’attaccamento alla maglia granata lo ha trasformato nel beniamino della Maratona; lui, panchinaro, più amato dei titolari dal nome (e dall’ingaggio) altisonante, al quale è stato dedicato uno striscione che la dice lunga: «Fontana, santo subito!».

La genesi dell’epopea-Fontana è ora racchiusa nelle 165 pagine del libro di Marco Mathieu («Il portiere di riserva», Cairo Editore, 12 euro) che ad Alberto ha dedicato una biografia che sarebbe piaciuta a Osvaldo Soriano, aedo del football fatto più col cuore che coi piedi. Fontana ha 34 anni e incarna il personaggio perfetto di «Sfide», la trasmissione di Raitre del ragazzino che tira un calcio al barattolo. Amarcord, storie e sentimenti che in Fontana si coaugulano nel ricordo del poster di Zenga e nei primi guantoni da lavare dopo gli allenamenti e conservare nella pellicola per farli durare di più.
È la favola di un ragazzo che dalla periferia torinese parte all’inseguimento di un sogno: indossare la maglia che fu di Bacigalupo, il portiere che «parava tutto», quello per il quale il pallone era «un nemico che non deve entrare in casa». Fontana attraversa così l’Italia uscendo alla disperata su terreni fangosi e speranze deluse; un itinerario di incontri e illusioni che mostra l’altra faccia del calcio in un Paese dove il fuorigioco e l’autogol sono sempre in agguato. Ma non pensate a un libro palloso, anche se durante la lettura di palloni ne vedrete spuntare a centinaia; «sfere di cuoio» che però nel caso di Fontana, più che rotolare verso i pali della porta, ruzzolano in direzione dei legni della panchina. A differenza di Dida - l’unico al mondo riuscito a infortunarsi stando seduto su una poltroncina a bordo campo -, Alberto, detto «Jimmy» (come il suo collega del Palermo e come tutti quelli che portano il cognome Fontana), ha un fisico da highlander.

La sola volta che ha rischiato di farsi male è stato nel giorno della promozione del Toro in A, quando - colto da un raptus di gioia - salì sulla traversa per poi precipitare come un fesso. «La scena circola sui video di YouTube, ma preferisco non rivederla...», dice Jimmy il fenomeno. Su Fontana non circola molto altro materiale, considerato che - perfino quando era in C - Alberto ha dato sempre l’impressione di essere più interessato ai cuscini della panchina che alla rete della porta. Un atteggiamento che suscita rabbia, soprattutto dopo aver conosciuto Alberto Maria del quale apprezziamo molti aspetti, eccetto la rassegnazione con cui ha metabolizzato la «sindrome di Alessandrelli». Alessandrelli era il dodicesimo di Zoff, un panchinaro a vita considerata l’insostituibilità cronica del grande Dino; ne sanno qualcosa anche altri storici portieri di riserva bianconeri come Piloni e Bodini che fecero le ragnatele ai guanti. Ma una cosa è avere davanti un mostro come Zoff e un’altra è confrontarsi coi i perfetti sconosciuti incrociati da Fontana nel corso delle esperienze calcistiche. Al Toro ora, a difendere la porta, c’è Sereni: un portiere con i fiocchi. Che Fontana sia il «secondo» ci può stare, forse è giusto.

Ma quando Fontana andò in prestito al Voghera, neopromossa in C2, perché non pretese di fare il titolare? Al presidente che gli propose un contratto biennale da secondo portiere, lui rispose: «Va bene, anzi preferisco un ingaggio più basso ma un contratto triennale». Ma come, sei nel pieno della forma e accetti di fare il dodicesimo a un tale «Negretti»? Si rimane perplessi: l’aver rinunciato a fare il titolare perfino quando le sue squadre si chiamavano Sandonà, Pistoiese, Aosta. Lui, anche lì, era quello serio che faceva gruppo. Ma un atleta «con gli attributi», oltre a saper «fare spogliatoio», deve essere cosciente di poter lasciare il segno. Fontana quel segno, più che sul campo, lo ha lasciato sulle panchine, facendo di questa scelta la sua filosofia di vita. Nonostante ciò Jimmy è diventato un simbolo granata, tanto che l’Urbano Cairo, nel suo primo giorno di presidenza, lo convocò chiedendogli a bruciapelo: «Perdoni la domanda, Fontana, ma come fa a essere così famoso tra i tifosi del Toro?».

La risposta va letta attraverso le vicissitudini di una società che Fontana, dal 2002 ad oggi, ha vissuto come una famiglia. Il momento più nero lo ricorda bene: «In meno di un mese passammo dalla promozione in A al fallimento, tra ultrà in rivolta e affaristi all’arrembaggio, sindaco mobilitato e preoccupazioni per la tradizione sportiva della città, oltre che per l’ordine pubblico». Fuggi-fuggi generale, Fontana fu l’unico a firmare in bianco. Da allora i tifosi non hanno più dimenticato il suo nome, scandito ogni domenica con cori mai riservati a un secondo. Carriera «sghemba», la sua, con una data chiave: 24 maggio 2003, esordio in A, Como-Torino 1-0». Prima una girandola di club affrontati con la scheda dell’Almanacco sotto il braccio: «Nato a Torino il 2-12-1974. Altezza cm 188, peso kg 83. Ruolo: Portiere». «Di riserva» non c’è scritto da nessuna parte.

Fontana oggi ha il sorriso

sincero e gli occhi pieni di luce: «Da bambino mi piaceva buttarmi per terra. Forse era il segno di quella che amo chiamare la vocazione del portiere». Ma un vero portiere ha bisogno di volare. Non solo con la fantasia.

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