Cent'anni di Faraone

Il volto d'oro di Tutankhamon che regna sul presente più che sull'antico Egitto

Cent'anni di Faraone

Nel 1922, cento anni fa, spostando una enorme massa di detriti, veniva scoperta una scala di sedici gradini. Stretta e ripida, rinvenuta dalle manovalanze egiziane che lavoravano per gli scavi finanziati da Lord Carnarvon e diretti da Howard Carter, portava verso quella che è diventata la scoperta più nota di tutta l'egittologia: la tomba di Tutankhamon. Il giovane faraone, dal brevissimo e anodino regno (dal 1333 al 1323 a.C.), diventò in brevissimo tempo il volto di un'intera civiltà. Il suo volto triste ma serafico, così come è impresso nella sua maschera funeraria d'oro, è diventato un'icona riprodotta milioni e milioni di volte. Dalle rocce della Valle dei re sono emersi oggetti, reliquie sopravvissute al tempo, che hanno cambiato l'immaginario collettivo. Come preservato in una capsula del tempo, il re bambino - arrivato sul trono dopo una rivoluzione religiosa fallita, quella di Akhenaton, e una controrivoluzione di cui gli storici faticano ancora a ricostruire esattamente gli eventi - ha avuto nel XX secolo il suo vero regno. Da morto, questo giovane monarca che fu costretto a cambiare nome, che quasi certamente zoppicava gravemente ed era affetto da malaria, è diventato infinitamente più importante che da vivo. Sulla tomba, sui suoi scopritori si è creato un mito ben riassunto dalla frase attribuita a Howard Carter sin dal suo primo solitario sguardo, alla luce di una torcia, attraverso un buco praticato nella porta murata dell'anticamera del sepolcro: «Vedo cose meravigliose».

Proprio così si intitola il libro della storica dell'arte Christina Riggs pubblicato nel nostro Paese per i tipi di Bollati Boringhieri. Vedo cose meravigliose (pagg. 490, euro 28) non è il solito libro di egittologia o di storia dell'archeologia. Come spiega bene il sottotitolo, la Riggs guarda al passato per delineare il nostro presente, ovvero «come la tomba di Tutankhamon ha plasmato cento anni di storia». La studiosa dell'Università di Durham partendo anche dal suo personale e fanciullesco incontro con il mito di «Re Tut» - avvenuto grazie ad uno scalcinato proiettore alle elementari - ricostruisce la vicenda complicata della creazione di una narrazione collettiva in cui si sono intrecciati: scienza, marketing, crisi politiche, gelosie personali, questioni razziali, colonialismo, post colonialismo, orgoglio afro e saccheggio di bassa lega.

La tomba di Tutankhamon è diventata presto un palcoscenico per far andare in scena il presente, se si vuole uno specchio in cui riflettere quello che il presente voleva vedere di se stesso e del passato.

Partiamo dall'inizio sulle tracce seguite, con piglio da archeologa, dalla Riggs. Quella che venne presentata da subito come una grandissima scoperta scientifica (lo era) nacque subito anche sotto la buona stella dell'intrapresa commerciale. Lord Carnarvon aveva finanziato svariati scavi di Carter che aveva una formazione sviluppata sul campo ma non propriamente accademica. La scoperta della tomba quasi integra, antichi tombaroli avevano predato, molto parzialmente, solo le stanze esterne, arrivò quando le casse della campagna erano ormai agli sgoccioli. Divenne subito fondamentale far rendere la cosa più vendibile di quell'impresa: le fotografie realizzate da Harry Burton. Carnarvon firmò un contratto di esclusiva con il Times di Londra. Per dare a Carnarvon un anticipo di 5mila sterline e il 75% dei profitti delle vendite future, il principale quotidiano britannico avrebbe venduto i diritti delle immagini e della storia in tutto il mondo. La chiave di questi scatti era la sensazione di «inviolato» che trasmettevano. Contribuirono moltissimo a far partire la «Tutmania». Negli anni Venti, in cui si aveva il disperato bisogno di andare oltre la Prima guerra mondiale, il re emerso dalle sabbie divenne una perfetta arma di distrazione di massa. Si fece ricorso al suo nome persino per vendere le limonate, una casa produttrice di biscotti inglesi fece scatole da collezione ispirate alla tomba. Iniziarono a svilupparsi attorno agli scavi che avrebbero dovuto essere essenzialmente scientifici diverse tensioni. Ci fu chi, ad esempio il Daily Express, definì quella messa in piedi da Carter una «Tutankhamon s.p.a.», nel frattempo Lord Carnarvon era morto dando vita ad uno dei tanti spin off pop della scoperta: la maledizione.

Non bastasse, su questa situazione già complessa si andarono ad infilare anche tensioni post coloniali. L'Egitto dal 1922 si stava muovendo verso una sua indipendenza, anche se limitata, dall'Inghilterra. La tomba nei cui scavi la manovalanza locale aveva avuto un ruolo di primo piano, mai riconosciuto dagli occidentali, venne subito percepita come un simbolo del rinnovamento del Paese. Tanto più che la scoperta fece da booster al turismo lungo il Nilo e nella Valle dei re. Giusto per dire, il grande poeta egiziano Ahmed Shawqi arrivò a comporre un'ode al ritrovamento: «Salutate i resti della gloria del nostro Tutankhamon/ è una tomba che, per la sua bellezza, ha quasi fatto brillare le pietre e profumare l'argilla». Ovvio che in questo clima la gestione molto personalistica degli scavi fatta da Carter portasse allo scontro diretto col Servizio delle Antichità egiziane che pretese quantomeno la presenza di un ispettore. Finì con uno scontro diretto che portò nel 1924 allo stop dei lavori. La questione si ricompose ma continuò, come dimostra il libro della Riggs, a muoversi per decenni sotto traccia. E non parliamo di beghe archeologiche ma di legame con una civiltà. Gli egiziani hanno sentito Tutankhamon come un loro grande patrimonio e le mostre all'estero organizzate dopo gli anni '60, giusto per fare un esempio, si sono rivelate un perfetto passaporto diplomatico per tessere nuovi rapporti o favorire la raccolta fondi per spostare i templi minacciati dalla costruzione della diga di Assuan. Ma la tendenza occidentale, iniziata male con certi oggetti provenienti dalla tomba che Carter si portò a casa, a considerare «Tut» come solo incidentalmente di competenza egiziana è proseguita a lungo.

Sino a indispettire gli afroamericani. Perché? Perché nelle mostre negli Usa di oggetti provenienti dalla tomba loro vedevano la prova provata del grande peso e antichità della cultura africana. E invece questo tema secondo loro finiva sotto il tappeto perché vendeva poco. Ma i modi in cui l'antico monarca è stato tirato per la barbetta cerimoniale (che a un certo punto si è davvero staccata dalla maschera funebre) sono tantissimi e proseguono sino al presente. Riggs li elenca in dettaglio.

Riportare alla vita qualcosa di sepolto significa riportarlo nel flusso del mutamento e anche del merchandising: è mutamento che paga bollette e teche corazzate. L'importante è saperlo, guardare i fatti con occhio fermo e sincero, come quello della maschera del faraone bambino. Che voleva guardare l'eternità e deve guardare noi che la guardiamo.

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