Su Ludwig Wittgenstein, tra i maggiori filosofi del Novecento, andrebbe sciolto una volta per tutte un equivoco. Quanti hanno citato a sproposito quell'asserzione conclusiva del Tractatus logico-philosophicus (su ciò «di cui non si può parlare, si deve tacere») senza considerare il percorso che lo aveva portato fin lì, o, peggio, senza neppure aver letto il libro?
Per Wittgenstein la filosofia non era portatrice di nessuna funzione rivelatoria. La immaginava come qualcosa di assolutamente descrittivo («La filosofia non è una dottrina, ma un'attività», scriveva nel Tractatus). Questo significava che compito del filosofo era quello di trovare un modo di dire il mondo, riuscire a spiegarne la logica. Solo quando si fosse riusciti a descrivere il mondo attraverso proposizioni che fossero il risultato di pensieri (diceva che un vero pensiero è solo quello che emerge in una forma linguistica chiara), potrà essere riconosciuto, per contrasto, tutto quanto non è stato detto. Quel non detto, di cui non è la filosofia a doversi occupare, è però tutto ciò che conta. Che ciò che non si può dire sia pure tutto ciò che conta, lo capiamo da questa recente pubblicazione: Movimenti del pensiero. Diari 1930-1932/1936-1937 (Quodlibet). È qui che scopriamo quanto il suo maniacale desiderio di perfezione, il suo bisogno d'ordine filosofico, e la necessità che sentiva impellente di raffreddare gli stati emotivi (il Tractatus finì di scriverlo mentre era prigioniero in Italia durante la Grande Guerra), derivava da un tormento vitalissimo che lo faceva apparire all'esterno come un disadattato tornato dalla guerra, aveva rifiutato la cospicua eredità paterna e aveva creduto di non dover dire più nulla in filosofia, tanto da rinunciare a praticarla per molto tempo (compiendo i più disparati lavori: dal maestro elementare al giardiniere).
In queste pagine private scopriamo un Wittgenstein intimo, tormentato dall'amore per una donna (il solo amore di cui si abbia una traccia scritta) e da una tensione spirituale vertiginosa.
Un uomo che non smetteva di interrogarsi, continuamente minacciato dai propri sensi di colpa («La mia coscienza mi tormenta e non mi lascia lavorare»). Era da questi eccessi che trovava la forza di ristabilire un contatto intimo coi suoi pensieri; da questi tormenti nasceva la sua necessità logica.
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