Zelda e Scott, la fine (inimitabile) di un amore

Zelda e Scott, la fine (inimitabile) di un amore
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«È questo che dovremmo fare quando siamo al meglio - inventare tutto» scrive Ernest Hemingway all'amico Francis Scott Fitzgerald nel maggio del 1934. A quel punto, è evidente che per Fitzgerald c'è un ambito in cui il proposito, portato così talentuosamente a termine nei romanzi, è irrealizzabile: il suo matrimonio con Zelda Sayre. Lì, l'invenzione è stata superata, e di molto, dalla realtà. Scott e Zelda si conoscono nel 1918 e si sposano il 3 aprile del 1920; il 23 aprile del 1930, Zelda viene ricoverata per la prima volta per un crollo nervoso. La coppia è a Parigi, e nel giro di dieci anni insieme ha bruciato tutto: belli e dannati davvero ma, a differenza di quando fu pubblicato il romanzo (nel 1922), senza speranza e senza nemmeno più l'aura della maledizione d'artista. Fra Scott e Zelda scorrono fiumi di odio e rancore, almeno quanto l'alcol che lo scrittore ingurgita ogni giorno. Lo raccontano le lettere che si scambiano in quegli anni, dal 1930 alla morte di Scott, nel dicembre del 1940 (Zelda lo segue nel '48), ora raccolte da Sara Antonelli in La parte inventata della vita (Feltrinelli): lei più in clinica che a casa, anche dopo il ritorno in America; lei che implora di tornare libera, che dice solo di «desiderare di essere morta», che si chiede «perché non siamo mai stati molto felici e perché è successo tutto questo»; lui che spende tutto il denaro possibile per farla curare al meglio, e per occuparsi della figlia Scottie; la famiglia di lei che incolpa lui di averla condotta alla pazzia; lui che incolpa lei per l'«egoismo», che la ridicolizza per non poter vivere in altro modo che accudita, che la sottopone a surreali raffiche di domande psicologiche, che addirittura sostiene di aver trasformato la sua follia in qualcosa di buono («Io razionalizzai le tue eccentricità e feci di te una sorta di creazione»); e, su tutto, il rinfacciarsi e il riaffacciarsi di un amore che non è più «la parte inventata della vita», bensì l'ha fagocitata, travolta, trascinata con sé verso la fine già scritta. Eppure, «il liquore che ho sulla bocca per lei è nettare. Io stravedo per le sue allucinazioni più sfrenate» confessa Fitzgerald.

Il punto di rottura è quando Zelda scrive le bozze del romanzo Lasciami l'ultimo valzer e le spedisce direttamente all'editor di Scott: una autobiografia esplicita della coppia, con lui nel ruolo del cattivo a cui addossare ogni misfatto. Si indigna: «I miei libri l'hanno trasformata in una leggenda e l'unico scopo di questa specie di ritratto sbiadito è fare di me una nullità». Seguono litigi e meschini «accordi» su eventuali future opere di Zelda, il tutto mentre lui cerca di procurarle editori per i suoi racconti... E poi i ricordi dei loro anni irripetibili, eccessi, feste e viaggi, fra i Murphy (protagonisti di Tenera è la notte), Hemingway, Dorothy Parker, perfino Hitchcock, New York, l'Alabama, la Costa Azzurra, Capri, l'Africa, Cuba...

Zelda che di fronte alla sua indifferenza ha «seguitato e seguitato - ballando da sola», perché «l'amore è crudele ma è la sola cosa che c'è» e «il resto è per i mendicanti d'affetto di questa terra», e loro due invece no, non mendicano, non possono inventarsi niente: perché, come le scrive Scott, «un tempo noi due eravamo una persona sola e sarà sempre un po' così».

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