Lo zio carnefice

All’inizio di questa storia Michele Misseri era solo un fantasma. Invisibile. Poi, la settimana scorsa, è entrato in scena. Piagnucolando. «Ho trovato il cellulare bruciato di Sara, povero me. Ora tutti mi sospetteranno...». Ma intanto aveva già venduto l’anima al diavolo.
Recitava la parte dell’innocente Michele, lo zio-killer della povera Sara. Sui muri di Avetrana, i suoi compaesani hanno già scritto la sentenza: «porco bastardo». Lui - il «porco bastardo» - ha confessato: «L’ho uccisa, l’ho violentata e l’ho gettata nel pozzo». Una nipote di 15 anni massacrata prima e oltraggiata dopo.
Ora che se le stringe al volto per coprirsi la faccia, le mani di Michele Misseri appaiono ancora più mostruose: sporche, con le dita deformate, le unghie nere.
Ha 57 anni, Michele, ma ne dimostra almeno 10 di più. Davanti alle telecamere appare sempre trasandato, con la barba ruvida e un ridicolo cappellino da pescatore. Gesticola, si dispera: sembra il simulacro di una famiglia perseguitata dal destino malvagio; peccato che quel «destino malvagio» abbia un nome e un cognome: Michele Misseri.
Ma lui, agli occhi del modo e di Dio, vorrebbe accreditare l’immagine dell’agricoltore un po’ sempliciotto, vittima del fato che ha fatto trovare - proprio a lui e nel suo campo - il telefonino di Sara.
Perché Michele abbia messo su questa sceneggiata non lo sapremo mai, ma di certo è stato così che Michele si è chiuso nella gabbia che lui stesso aveva creato; come se avesse costruito una trappola per volerci finire dentro. Perché, forse, il rimorso non risparmia neppure un «porco bastardo».
Michele è rimasto nell’ombra per oltre un mese, apparentemente «provato dalla sofferenza». Era stato ascoltato dagli investigatori nei primi giorni della scomparsa di Sara, poi era stato risentito il 28 settembre scorso, il giorno prima, che diventasse protagonista della vicenda, quando, cioè, tra lo stupore generale, ha ritrovato il cellulare di Sara in un uliveto dove era andato per lavorare insieme con un amico.
Il 29 settembre era tornato da solo in quel podere perché - aveva poi raccontato agli investigatori - aveva dimenticato un cacciavite e lì, semi-brucciacchiato, aveva trovato il cellulare della nipote, senza batterie e senza schede Sim. È la svolta del giallo.
Spiegano gli esperti: «Il profilo psicologico di chi compie un delitto d’impeto, come quello di Sara Scazzi, è compatibile con quello di un soggetto che poi simula il ritrovamento casuale del cellulare della vittima e che sa gestire lo stress derivante dall’atto d’impeto».
Di certo per i carabinieri, la consegna del cellulare da parte di Michele Misseri è stata una specie di «segnale» mandato, più o meno inconsciamente, da una persona alle prese con un peso evidentemente insopportabile.
Quel 29 settembre, quando ha ritrovato il telefonino, Michele Misseri ha sentito il bisogno di «difendersi». Ha accettato di essere intervistato dalla folla di giornalisti che assediava da oltre un mese Avetrana: «Non avrei voluto essere proprio io a trovarlo», ha detto mentre piangeva disperato e intanto con gli occhi cercava le telecamere; ai più sembrava che stesse dicendo la verità, invece era una bugia satanica.
Quel giorno la mamma di Sara aveva difeso il cognato: «Non è stato lui, io di Michele mi fido»; una sicurezza che nei giorni successivi è cominciata però a vacillare.
È stata infatti proprio la madre di Sara a dire agli investigatori di «indagare nella famiglia, tra le persone vicine». Aveva ragione.

Perché quell’uomo dall’«aspetto mite», le maniche di camicia rimboccate, i pantaloni larghi e sporchi di terra, gli occhi sempre inumiditi dalle lacrime era - in realtà - il travestimento del diavolo.
L’inferno, ora, lo aspetta.

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