Giustizia, attrice rovinata da un processo "farsa"

Gioia Scola era stata ingiustamente accusata di traffico di droga, ma l’assoluzione è arrivata solo dopo 12 anni. Niente risarcimento per la carriera: la mancata chance vale solo per De Benedetti

Giustizia, attrice rovinata  
da un processo "farsa"

Milano - La ferocia e la sciatteria. Tutte e due sulla bilancia della giustizia. Gioia Scola alla metà degli anni ’90 era un’attrice bellissima che cercava di farsi strada nel cinema e nella tv. Aveva interpretato la parte della bruna fatale in Yuppies 2, al fianco di Jerry Calà, Christian De Sica e Federica Moro. Non aveva fatto i conti con i verbali di un pentito, Mario Fienga, che aveva raccontato ai Pm di Napoli storie di camorra e di cocaina. Un collaboratore, che fra l’altro accusava de relato, come si dice in gergo, era più che sufficiente, speriamo oggi non più, per distruggere una carriera e una reputazione. «Mi arrestarono - racconta oggi lei davanti a una tazza di caffè - il 7 giugno ’95. Mi contestavano addirittura di essere la mente di un traffico internazionale di stupefacenti fra il Brasile e l’Italia».

Di vero in tutta questa costruzione c’era solo un elemento. Gioia Scola era stata davvero a Rio de Janeiro, nel ’92, per un intervento di chirurgia estetica nella celeberrima clinica di Ivo Pitanguy, e lì aveva avuto un fugace flirt con Vincenzo Buondonno, poi ammanettato perché considerato un trafficante di rango. Altro non c’era. Ma per dimostrarlo ci sono voluti 12 anni e oggi Gioia è una signora matura che si è reinventata come produttrice e si è lasciata alle spalle la giovane attrice. La sciatteria di un sistema farraginoso e lentissimo, di un processo che sembra una di quelle autostrade del Sud, sempre in costruzione e mai inaugurate. Ma prima la crudeltà: «Mi portarono in cella al carcere di Pozzuoli e mi tennero cinque giorni in isolamento. Incredibile, la tv era sempre accesa e vomitava servizi su servizi in cui si faceva il mio nome e si evocavano stelle, stelline e starlette». La classica inchiesta che promette molto, che serve ai giornali speculazioni e gossip, che tritura nomi come rifiuti.

«Ascoltavo e rimanevo basita nella mia piccola cella. Ma mi ripetevo: sarà un errore, chiariranno». E in effetti dopo cinque giorni la donna è liberata per il più banale dei motivi: il gip, surreale, non ha fatto in tempo a interrogarla nelle centoventi ore previste dal codice. Gioia Scola torna a casa fiduciosa e si ripresenta a Palazzo di giustizia dopo dieci giorni: «Ci andai con le mie gambe, spontaneamente, come si dice in questi casi, con l’idea ingenua che tutto dovesse finire con un chiarimento. Invece, mi misero direttamente le manette e ritornai in cella».

Ecco come il sistema può essere insieme spietato e distratto. Si perde per strada un interrogatorio, allora si è costretti a mettere fuori l’indagato e poi, come se fosse un pacco e non una donna di poco più di trent’anni colma di sogni e impegni, la si ributta in prigione. Dove rimane come un ostaggio fino al 26 agosto. «I Pm mi ripetevano: “quel tal giorno al ristorante ha visto qualcuno andare in bagno?”».

«Insomma, si aspettavano nomi, nomi importanti di vip coinvolti nelle sniffate. Ma io non ne sapevo nulla». Può sembrare un dettaglio superfluo, è la verità. Come in quel racconto folgorante di Anatole France: Crainquebille. «Avrebbe voluto confessare, se solo avesse avuto qualcosa da confessare». Fra l’altro questa storia non era improvvisata, ma era stata covata nel tempo: il pentito era stato coltivato a lungo, prima di passare agli arresti. All’epoca della liaison con Buondonno, anche lei era stata intercettata ma non era uscito nulla di nulla. Anzi, la presunta complice aveva addirittura denunciato Buondonno perché aveva utilizzato a sua insaputa la sua carta di credito. Un sodalizio che non c’era.

Ma se è difficile smontare quel che c’è, diventa improbo cancellare quel che non c’è. «Un giorno chiamai i Pm. Forse pensavano che volessi confessare qualche nome eccellente. Invece, li affrontai a brutto muso: “voglio essere trasferita a Rebibbia, perché mia mamma abita a Roma e non ne può più di venire qui a Pozzuoli al giovedì a trovarmi”. Forse capirono che non avrei mollato e mi concessero gli arresti domiciliari».
Gioia Scola rimane blindata in casa fino al 10 novembre ’95. Un periodo lunghissimo, devastante sul lato professionale e personale: la madre cade in depressione e non si riprenderà più. Poi alla vigilia della pronuncia della Cassazione sull’arresto, ecco la libertà. I difensori della signora rinunciano al ricorso davanti alla Suprema corte che avrebbe potuto mettere in evidenza le carenze e egli errori dell’inchiesta.

In tutto fanno 73 giorni in carcere, 76 agli arresti domiciliari e una carriera nel cestino, fra titoloni scioccanti e foto ammiccanti sui giornali. Poi il sistema cade di nuovo in letargo. O quasi: tanto per cominciare si scopre che la competenza non è di Napoli, ma di Roma e così il processo si trasferisce nella capitale. Qui si fa avanti un passettino alla volta per anni e anni. Tanta fretta, due arresti, interrogatori su interrogatori, poi la giustizia avanza fra uno sbadiglio e l’altro. Solo che lei è sempre inchiodata a quelle dichiarazioni di rimbalzo di Fienga: «Buondonno mi ha detto che Gioia...». Solo che Buondonno la scagiona. In pieno. E altro non c’è. «Le numerose intercettazioni nelle quali è coinvolta - si legge negli atti - provano soltanto il rapporto sentimentale e di frequentazione che aveva con Vincenzo Buondonno, come da lei ammesso». Lui verrà condannato, lei no. Ma l’assoluzione, sollecitata in aula dallo stesso Pm, arriva solo il 2 maggio 2006 e diventa definitiva il 26 giugno 2007. Dodici anni dopo l’incipit della storia. «Per dodici anni ho dovuto convivere con un’altra Gioia che non conoscevo, ma di cui parlavano il pentito, i giudici e i giornali. Una trafficante a me ignota. È stato un incubo».

Ora arrivano anche i risarcimenti. Un obolo o poco più. Cinquantamila euro per l’ingiusta detenzione. E dodicimila euro per gli «undici anni e mezzo» persi dallo Stato in lungaggini. Sessantaduemila euro in tutto. Lei aveva chiesto anche un indennizzo per il disastro professionale, la scomparsa dalla tv e la fine delle sue attività davanti alla telecamera. Ma per lo Stato quel danno non c’è. O meglio, non è provata «la perdita di chance». Ovvero, «la ricorrente non ha fornito alcun elemento per poter pervenire a ritenere provato, anche in via meramente presuntiva, che se il processo fosse durato soltanto quattro anni essa avrebbe probabilmente avuto apprezzabili possibilità di riprendere l’attività professionale, tanto più che è noto che nel mondo del cinema e dello spettacolo in generale l’assenza dalle scene già per qualche anno può comportare la perdita del definitivo interesse del pubblico».

Insomma, quattro anni o dodici non fa differenza, il problema è l’arresto e pazienza se le manette sono state un errore. Sipario.

Per la cronaca, il danno da perdita di chance è diventato celebre in questi giorni per il Lodo Mondadori: la Cir di De Benedetti, per carità un colosso, ha avuto 750 milioni di euro. Gioia Scola, solo una bella e giovane attrice, euro zero.

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