Nel ciclone Usa l'Europa impari l'arte dell'attesa

Con questo articolo, Giovanni Orsina, storico e politologo, inizia la sua collaborazione col Giornale

Nel ciclone Usa l'Europa impari l'arte dell'attesa

In questi due mesi di amministrazione Trump il discorso pubblico italiano non ha dato gran prova di sé, oscillante com'è stato fra il catastrofista e il velleitario, in ogni caso un po' isterico e sopra le righe. E probabilmente lo stesso può dirsi del discorso pubblico europeo. Proprio in un momento come questo invece, quando un vecchio ordine viene violentemente demolito e il gioco si fa davvero pericoloso, è bene che anche gli osservatori si sforzino di rimanere il più possibile freddi e realisti. Cercando di muovermi in questo spirito, propongo di seguito tre considerazioni sull'impatto che hanno avuto i primi sessanta giorni della nuova presidenza americana.

Nessuno sa davvero, in primo luogo, fino a dove si spingerà l'amministrazione Trump. È ormai chiaro quale sia la sua direzione di marcia in politica internazionale: vuole riequilibrare a vantaggio degli Stati Uniti sul commercio, sulla difesa rapporti con altri Paesi che ritiene fossero squilibrati; dare priorità alla tutela degli interessi americani, con tanti saluti ai valori; concentrare le energie sulla sfida cinese. Ma non è affatto irrilevante quanto lontano potrà arrivare, marciando in questa direzione. Non è chiaro quanto lontano voglia essa stessa arrivare, innanzitutto. E poi a frenarla ci sono tante forze, destinate per altro a irrobustirsi, con ogni probabilità, via via che si riprenderanno dallo shock di questi primi due mesi. Forze interne agli Stati Uniti, che restano comunque, malgrado il diluvio di decreti trumpiani, una democrazia complessa e ricca di contropoteri. Forze esterne agli Usa gli altri Paesi, quel che resta delle istituzioni sovranazionali. E soprattutto la forza della realtà, che già si sta facendo sentire sul terreno economico e dovrà farsi valere anche su quello delle relazioni internazionali, prima o poi.

Per gli europei è saggio, in una situazione come questa, esasperare pubblicamente la frattura atlantica, prefigurando per l'amministrazione americana il punto di caduta più lontano dall'Europa e catastrofico per essa? A me non sembra. Tanto più che tutti gli esperti di cose militari paiono convergere nell'affermare che l'autonomia strategica del Vecchio Continente è oggi un'assoluta chimera, e pure se cominciassimo a riarmarci subito e di gran lena lo resterebbe per molti anni ancora. Quelle degli europei a Trump sono state reazioni di orgoglio, comprensibili e giustificate. Ma tra l'orgoglio e il velleitarismo autolesionista il confine è sempre pericolosamente sottile.

Non dobbiamo fare niente, allora? Al contrario, dobbiamo fare tutto. Ma, per prima cosa, dobbiamo capire come farlo. Vengo così alla seconda considerazione: Trump non ha ucciso l'ordine internazionale che ha preso forma dopo la fine della Guerra Fredda, ma ne ha dichiarato, tutt'al più affrettato, la morte. Non è una causa, insomma, ma una conseguenza ha vinto, fra l'altro, proprio perché quell'ordine aveva smesso di funzionare da tempo. Al centro di questa difficilissima fase di transizione, in attesa che si capisca dove andrà a parare, si collocano gli Stati nazionali. E questa considerazione vale anche per l'Europa, perché l'Unione europea è giunta drammaticamente impreparata alla sfida trumpiana. È del tutto legittimo, allora, sognare la difesa comune continentale e sostenerla nel discorso pubblico, in politica e nelle piazze. Ed è perfino possibile che alla fine ci si arrivi. Ma oggi quel traguardo è lontanissimo, e non possiamo in suo nome sostenere che i singoli Stati del Vecchio Continente non debbano provvedere a difendersi ciascuno per proprio conto. Fermo restando che più riescono a coordinarsi fra di loro, meglio è.

Portando la sovranità nazionale al centro, in un certo senso Trump dà ragione alle forze politiche che siamo soliti chiamare sovraniste. Ai sovranisti italiani dev'essere molto chiaro però per presentare scherzosamente la terza considerazione, malgrado non ci sia proprio niente da ridere che quando un sovranista piccolo incontra un sovranista grande, il sovranista piccolo rischia l'osso del collo. Nella sua cautela estrema, quasi ossessiva, Giorgia Meloni non anticipa mai i processi storici ma si muove sempre a posteriori, reattivamente. Se in altre circostanze questo potrebbe essere un difetto, in quelle attuali è una virtù: per tutte le ragioni che ho presentato finora, oggi qualsiasi accelerazione sarebbe imprudente e velleitaria. Tanto più che l'Italia non ha la capienza di bilancio della Germania né le armi atomiche della Francia e del Regno Unito: oggi rischiano di parer velleitari loro, figuriamoci noi.

Ciò non toglie però che, dovunque arrivi sulla via dell'America first, il trumpismo non potrà che costringere l'Italia in generale e i sovranisti italiani in particolare perché son sovranisti e perché sono al governo a un'urgente e dolorosa riconsiderazione dell'interesse nazionale e di come tutelarlo nel rapporto con gli

Stati Uniti e l'Alleanza Atlantica, gli alleati europei e l'Unione europea, e tutti gli altri soggetti di rilievo che popolano il vasto mondo. Sapendo che non ci si può né chiamare fuori né permettere di rimanere da soli.

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