
"Io credo che il Reddito di cittadinanza, per come è stato strutturato, per come è stato utilizzato e per le sue finalità, non quelle dichiarate, ma quelle che si sono realizzate nel corso del tempo, non è comparabile con gli strumenti che noi abbiamo messo in campo", l'Assegno di inclusione e il Supporto formazione e lavoro. Così la ministra del Lavoro e delle Politiche sociali, Marina Calderone, a margine del convegno Adapt "Giovani e lavoro: l'attualità del pensiero di Marco Biagi", rispondendo ad una domanda sul report Istat.
"Noi abbiamo fatto una valutazione degli elementi che portavano a dire che il Reddito di cittadinanza aveva fallito rispetto agli obiettivi, perlomeno quello di promuovere le politiche attive, quindi l'inserimento lavorativo delle persone. Sappiamo - ha proseguito - che in questi termini 35 miliardi di investimento non hanno prodotto dei risultati consistenti, certi, in termini di occupazione, ma invece hanno prodotto un accompagnamento nel mantenimento del sussidio. Per quello noi abbiamo fatto una scelta diversa, abbiamo individuato due strumenti, uno che è l'Assegno di inclusione, riconosciuto alle situazioni di fragilità: non dimentichiamo che oltre ad essere rivolto ai cittadini over 60, a chi ha nel nucleo familiare un disabile o figli minori, è riconosciuto anche a chi ha altri bisogni complessi e altre difficoltà, per esempio le donne vittime di violenza oppure le vittime di caporalato".
Oltre alle politiche attive, "bisogna guardare a quello che è effettivamente il risultato dell'Assegno d'inclusione che nel rispondere a queste esigenze restituisce invece una media superiore rispetto a quella del Reddito di cittadinanza. Inoltre, nel 2025 abbiamo aggiornato anche i valori Isee e i valori del reddito medio di riferimento proprio per fare in modo che si tenga conto anche di quella che è l'incidenza dell'inflazione sul potere d'acquisto", ha concluso la ministra.
Statistiche nuove, polemiche vecchie
Da qualche anno l'Istat pubblica un report sulla redistribuzione del reddito per misurare dal punto di vista dell'equità sociale le politiche fiscali. L'analisi sul 2024 ha messo in evidenza molte ricadute positive delle scelte effettuate dal governo Meloni attuate l'anno scorso (riforma Irpef, taglio del cuneo fiscale fino a 35mila euro e bonus decontribuzione per le madri). Tuttavia, il dibattito mediatico-politico si è concentrato sull'unico aspetto controverso, ovvero il passaggio dal Reddito di cittadinanza (Rdc) all'Assegno di inclusione (Adi), che ha comportato una riduzione del reddito per circa 850mila famiglie, con una perdita media annua di circa 2.600 euro.
Ne è seguita la solita litania di attacchi all'esecutivo da parte dei Cinque Stelle, inventori del sussidio (da Conte fino all'ultimo deputato tutti a concionare di «famiglie sul lastrico»), e anche la Cgil che ha accusato il governo di «cinismo» perché «risparmia sui poveri». È il caso di evidenziare che l'Rdc era una misura universale destinata a tutti coloro che avevano un Isee basso e che non avevano un lavoro, sia perché inoccupabili sia perché disoccupati. Poiché l'Adi si rivolge solo agli svantaggiati, già il paragone è poco calzante, mentre per gli occupabili c'è il Supporto formazione-lavoro, che è tutta un'altra cosa.
I numeri parlano chiaro
Da marzo 2019 a giugno 2023, l'Rdc è costato 32,3 miliardi di euro. Secondo il rapporto annuale della Corte dei Conti sulla gestione dell'Inps, il 50% dei beneficiari non possedeva i requisiti necessari per accedere alla misura, causando un danno stimato di 1,7 miliardi di euro tra il 2019 e il 2022 (per tacere di coloro che l'hanno fatta franca percependolo e lavorando in nero). Non è finita. La valutazione finale sulla misura effettuata l'anno scorso dal ministero del Lavoro ha evidenziato che, nonostante l'Rdc avesse raggiunto una platea ampia (2,4 milioni di nuclei familiari e 5,3 milioni di persone, secondo l'Istat), non solo non è riuscito a incidere significativamente sulla disoccupazione di lungo periodo, ma ha fallito clamorosamente anche il contrasto alla povertà, poiché solo nel 2021 si è raggiunto il 38% dei nuclei familiari in povertà assoluta, mentre negli altri anni il dato è stato sempre inferiore. A questo si aggiunge il fatto che il sistema dei Centri per l'impiego non è stato in grado di garantire un efficace accompagnamento al lavoro, lasciando molte persone nella stessa condizione iniziale. «I risultati non sono stati soddisfacenti», aveva commentato Natale Forlani, presidente del Comitato scientifico ministeriale che aveva effettuato l'analisi.
Se si ritiene che la valutazione ministeriale non sia sufficientemente terza perché politica, esiste un altro studio realizzato dall'Irpet (Istituto regionale per la programmazione economica della Toscana), pubblicato dal sito La Voce, non certo tacciabile di simpatie meloniane. In estrema sintesi, il documento giunge alle stesse conseguenze del ministero: poiché si sovrappongono contrasto al disagio e politiche attive per il lavoro, l'Rdc non ha avuto un impatto significativo sull'occupazione dei beneficiari né in termini positivi né negativi. Semplicemente, la misura non ha incentivato con efficacia la ricerca attiva di lavoro né ha migliorato le opportunità occupazionali.
I risultati positivi delle nuove politiche
Grazie alla riforma Irpef e al taglio del cuneo fiscale, 11,8 milioni di famiglie italiane, pari al 45% del totale e al 78,5% di quelle con almeno un lavoratore dipendente, hanno beneficiato di un aumento medio del reddito disponibile pari a 586 euro all'anno. Particolarmente significativo l'impatto sulle lavoratrici madri, per le quali l'esonero totale dei contributi ha generato un beneficio medio annuo di oltre 1.000 euro, con punte di 1.800 euro per coloro con retribuzioni superiori a 35.000 euro.
Inoltre, il numero di occupati è passato da 23,519 milioni a luglio 2023 a 24,037 milioni a dicembre 2024, con la creazione di 518mila nuovi posti di lavoro grazie a provvedimenti di decontribuzione e al taglio del cuneo fiscale. Il tasso di disoccupazione è sceso dal 7,9% al 6,5%, mentre il tasso di occupazione è aumentato dal 61,3% al 62,2%.
Politiche attive contro assistenzialismo
Insomma, parla bene del Reddito di cittadinanza solo chi intende le politiche di inclusione come assistenzialismo. Ecco perché dell'ultima analisi Istat è meglio ricordare le cose buone.
Chi lavora e si impegna dall'anno scorso sta un po' meglio. Logico che questo dispiaccia a chi aveva l'obiettivo di tenere le persone sul divano e che ha introdotto la misura con l'unico scopo di conquistare consensi elettorali.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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