
La Hazet 36 è una chiave inglese lunga 60 centimetri e pesante 3 chili e mezzo. Siamo tutti colpevoli. Ma proprio tutti, tranne quel diciottenne dai capelli lunghi, lasciato agonizzante sul selciato della storia il 13 marzo del 1975 dal servizio d'ordine dei trotskisti di Avanguardia operaia. La materia cerebrale a pezzetti sul marciapiede, insieme alle sue idee considerate oscene per chi si nutriva dell'odio di chi presume di avere in sé tutto il giusto. E gli altri nulla. Non l'unica vittima, perché a morire di crepacuore fu il papà, a vivere nel ricordo devastante la mamma Anita, a essere perseguitato e costretto a lasciare Milano il fratello Luigi e a rimpiangerlo ancora oggi la sorella Simona.
Perché in quegli anni definiti, a seconda delle prospettive, «formidabili» o «i peggiori» delle nostre vite, «Hazet 36 fascista dove sei» non era solo uno slogan, ma la prassi feroce di chi faceva dell'antifascismo militante una terribile religione laica seminatrice di violenza e morte.
E così Uccidere un fascista. Sergio Ramelli, una vita spezzata dall'odio di Giuseppe Culicchia (Mondadori, pagg. 235, euro 19) è una tonante arringa d'accusa a un banco degli imputati raramente così affollato. Perché, appunto, lì ci sono (o ci siamo) tutti: i compagni che sbagliano e quelli certi di non sbagliare, le forze dell'ordine che caricarono gli amici intenzionati a portare in corteo la salma dall'obitorio alla chiesa, i magistrati che all'inizio seppellirono l'inchiesta insieme al corpo della vittima e magari quelli che trasformarono l'omicidio nemmeno in «preterintenzionale», ma in «non volontario», traducendolo in pochi anni di carcere per la stragrande maggioranza non scontati. E poi i servizi segreti, quelli opachi, il governo reticente, il ministero dell'Interno e la Democrazia cristiana che lo occupava, la stampa affetta da daltonismo quando a morire era un ragazzo di destra ucciso da militanti di sinistra, i cattolici di Avvenire che su Ramelli scrissero mostruosità definendolo «picchiatore» ed «estremista», la scuola che nasconderà la targa messa in sua memoria solo decenni dopo e i professori che quel giorno in classe non dissero nemmeno una parola. I cattivi maestri, la Milano vile e quella fanatica che insieme al procuratore della Corte d'appello Bianchi d'Espinosa cercò di mettere fuorilegge Giorgio Almirante e l'Msi spingendo tanti giovanissimi di destra e di sinistra verso l'estremismo, i consiglieri comunali che alla notizia della sua morte data da Tomaso Staiti di Cuddia applaudirono soddisfatti e chi il giorno della sentenza andò in tribunale a chiedere l'assoluzione per i suoi assassini. Forse pure il presidente della Repubblica che non lasciò Roma per andare al funerale nella chiesa blindata dei santi Nereo e Achilleo, con i compagni che fotografavano i partecipanti per rimpolpare l'orribile archivio di viale Bligny 42 con i volti dei «fasci» ai quali «dare una passata». Poi tutti quelli che si girarono e hanno continuato a girarsi e le coscienze latitanti che, sentenzia Culicchia, per quanto si siano sentiti assolti, sono per sempre coinvolti.
Indifferenti, anzi complici anche oggi che si è tornati a mettere Giorgia Meloni, i cartonati dei politici e i loro libri scomodi a testa in giù, dando loro dei «fascisti» per rimarcare quella «differenza antropologica» che giustificava l'«uccidere un fascista non è reato». Una follia nella quale non cadde un pirata come Pier Paolo Pasolini per cui piombo e tritolo non servivano per destabilizzare lo Stato, ma per stabilizzarlo. Forse non solo una delle sue tesi estreme, dato che si contarono 14.495 attentati, 394 morti, 1.033 feriti. E solo a Milano tra il 1972 e il 1977 furono 140 le aggressioni con morti, invalidi permanenti e feriti anche molto gravi. Il fatto, la tesi di Culicchia che dà il senso a un volume ben scritto da uno scrittore, è che «tout se tient».
Ed è per questo che il libro diventa una richiesta di pacificazione, di pietà comune per tutti quei ragazzi e l'omicidio di Ramelli il baricentro intorno a cui rileggere l'ultima storia d'Italia, in una continua guerra civile da archiviare. E sanare, partendo dai sansepolcristi e proseguendo con i partigiani e la Repubblica sociale, Piazzale Loreto, Piazza Fontana e le tragiche morti di Pinelli e Calabresi, il brutale rogo dei fratelli Mattei, i sanbabilini e gli Anni di piombo. Una linea rossa di sangue che parte da un dato autobiografico di Culicchia che ha già scritto Il tempo di vivere con te (Mondadori) sul cugino brigatista Walter Alasia, morto in uno scontro a fuoco con la polizia. Accomunato a Ramelli da una morte troppo precoce, ma con l'avvertenza dell'autore di ricordare che «tu Sergio, al contrario di lui, non avevi scelto di impugnare le armi e non avevi ammazzato nessuno, sei stato ucciso per aver scritto un tema». Un compito in classe nel rossissimo Istituto Molinari di Milano, nel quale c'era solo l'indignazione per quei brigatisti rossi che a Padova avevano fatto le prime due loro vittime, gli inermi Giuseppe Mazzola e Graziano Giralucci. In quella federazione dell'Msi di via Zabarella dalla quale, visto che siamo in clima di ricordi autobiografici, il papà di chi qui scrive era uscito poche ore prima, scampando per un attimo a quella mattanza.
Un tema in classe, «senza sapere che quelle parole sarebbero state la tua condanna a morte» e la fine del ragazzo dell'oratorio e di via Mancini che sognava di cambiare la politica. E con la politica il mondo. In meglio, almeno un po'.
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