Ho passato due pomeriggi avvolto, tra divertimento puro e malinconia bastarda, nei 71 racconti della autobiografia di Claudio Sabelli Fioretti: Amascord. Ispirato a fatti realmente accaduti (Compagnia editoriale Aliberti, pagg. 284, euro 19,50). Un libro strano, somiglia a una gita in luoghi che si pensava di conoscere, e si rivelano con colori nuovi: è giornalismo di sinistra, ma di uno bravo. Lo consiglio. Non è la Bibbia, ma non è nemmeno il Corano. Per me è stato molto istruttivo, così spero per i miei lettori.
L'autore tiene molto ai canoni del mestiere, per cui, obbedendogli, informo che ha 80 anni, ha lavorato «nei tre quotidiani e nei tre settimanali più importanti d'Italia», ha inventato e condotto alcune tra le trasmissioni radiofoniche di maggior successo della Rai degli ultimi decenni, tra le quali Un giorno da pecora. Sabelli Fioretti contende a Stefano Lorenzetto - è lui a scriverlo - il primato di miglior intervistatore italiano. Prepara ossessivamente le interviste, leggendo e studiando tutto quel che uno ha scritto e detto. Registra la conversazione della durata minima di mezza giornata con tre diversi macchinette, la cui trascrizione ad opera di collaboratori stacanovisti occupa un centinaio di pagine che Claudio, tagliando e cucendo riduce a un decimo, rivestendone il soggetto con un abito idoneo a un défilé di moda. Riferisco di questa arte perché nel libro ci sono stralci di interviste, tra le seicento realizzate, che sono il sugo di una vita di lavoro, che l'autore, dotato di uno snobismo fanciullesco, fa credere non c'entrino nulla con la fatica di guadagnarsi da vivere. E sono invece un piccolo patrimonio dell'umanità. Nel fluire della narrazione piena di curve e contro curve, rapida e tumultuosa come un torrente alpino, appaiono per un istante pepite d'oro. Conviene fermarsi a raccoglierle e mettersele in tasca. Lascio perdere le citazioni frizzantine. Ma come si fa a non passare alla personale meditazione quel che Domenico Modugno disse a Claudio (che non ricorda dove e quando accadde, come spiegheremo più avanti, ma per fortuna accadde davvero). Il grande cantautore pugliese aveva avuto un ictus e gliene raccontò la cronaca dal di dentro. Stava registrando una trasmissione. Capì cosa stava succedendogli: «Inciampavo da tutte le parti, cadevo, mi appoggiavo. Le telecamere registravano...». Non si arrende, non può: «Io sono come un cavallo da corsa che continua a galoppare finché non casca morto per terra. La registrazione comunque bisognava terminarla». Non sta ancora bene, ma è irremovibile: «Adesso torno a cantare. La vita è una cosa troppo grande e vale la pena di viverla in qualsiasi condizione». Ne ride: «Mica potevo continuare a fare il Modugno paralitico per tutta la vita». E canta. Comporre no, perché per comporre bisogna essere felici, e adesso «sono sempre incazzato... (ma) quando canto sono felice». Non fuma più sigarette, gliele nascondono. «Il resto lo fumo tutto. Mi fumo l'odore della pastasciutta. Mi fumo il mondo. Mi fumo la vita». Le donne. «Le tette, le tette». Sabelli Fioretti lo rimprovera di essere un reazionario. Modugno se ne frega, e tira contro le femministe e i «frociacci», anticipando di trenta o quarant'anni Bergoglio. Basta, mi fermo. Andate voi al capitolo 62, pagina 248 e seguenti, capolavoro. Oppure leggete quel che gli disse Al Bano a pagina 235-237. Claudio aveva riportato una frase del cantante, il quale non si dava pace per aver ferito la fidanzata Loredana Lecciso. «Se durante l'intervista qualche frase in nome della verità è uscita, chiedo scusa a te». Chiese lui scusa al giornalista! Grande Al Bano. Ma grande anche l'intervistatore, a cui gli scoop capitano perché ha questa qualità: cava le viscere. E sa scrivere. Accidenti se sa scrivere.
A proposito di donne, mogli e fidanzate. Claudio Sabelli Fioretti nel libro ne parla, eccome. Vive con la terza moglie, dopo due divorzi e altre due lunghe convivenze, e questo forse comporta qualche garbuglio nella memoria a cui ho già fatto cenno e che dà motivo al titolo. Amascord infatti fa il verso ad Amarcord: non è un gioco di parole ma una confessione. Claudio ha sostituito la «r» del film di Fellini con la «s», trasformando il «mi ricordo» nel suo contrario: «mi dimentico». Un handicap mica da poco per uno che intende scrivere la propria autobiografia: se l'è cavata con i ritagli da internet, ed anzi ha sfruttato le gaffe originate dal secchio bucato che si ritrova al posto della testa per confezionare episodi esilaranti. Spesso non riconosce i volti di amici e parenti. Una volta ha baciato una donna e poi ha chiesto in giro chi fosse: era una sua ex moglie di nome Marta. Lo racconta in una pagina che è da scuola di umorismo alla Mark Twain. Se nel libro diventa un ingrediente della trama, nel quotidiano la smemoratezza provoca disastri, accumulazione di figuracce, facendolo passare per uno che non saluta la gente perché se la tira, essendo famoso e dotato appunto di due cognomi.
Questa storia dei due cognomi ad un certo punto è diventata la protagonista della storia. Quando, appena dopo essere stato assunto giovanissimo a Panorama in forza della casta di appartenenza (quella caratterizzata dal doppio patronimico), il direttore Lamberto Sechi gli fa il dispetto di tagliargliene uno (di cognome), fatto da lui vissuto come l'amputazione che state pensando, cova la rivolta del nobile offeso nell'intimo. E la racconta benissimo.
Lì ho capito allora, e gli ho perdonato il disagio che avevo provato nella prima ora di lettura, peraltro addolcito dal godimento per il ritmo e il realismo inventivo della narrazione. Fastidio per la ruota del pavone esibita senza meriti, il vanto per una posizione sociale trattata come un doveroso pedaggio alla crème romana di appartenenza. Invidia sociale la mia? Direi anzi il contrario. La rivendicazione di un altro percorso rispetto al suo. Sulla mappa della vita il mio sentiero lavorativo è stato alquanto più scosceso. Forse per questo sono sempre stato molto attento, diversamente da lui, a non farmi licenziare, e piuttosto ad assumere più volte anche chi mi aveva girato le spalle. (Specifico: non per bontà d'animo, ma per convenienza. Riprendere con me uno stronzo, ma bravo, mi avrebbe aiutato a vendere più copie.)
Pertanto confermo come sincere e autentiche le righe che mi dedica Sabelli Fioretti vantando, scherzosamente e paraculescamente, la propria superiorità morale ed estetica. Dice di sé, dopo aver ripercorso i suoi fiaschi: «Gli editori non hanno mai avuto fiducia in me. Giustamente. Non mi ritenevano affidabile. Il contrario di quello che succedeva a Vittorio Feltri. Lui prendeva i giornali a centomila copie e li portava velocemente a duecentomila. Io li prendevo a trentamila e li portavo velocemente alla chiusura. Però i miei giornali erano belli e quelli di Feltri no. E poi io ero di sinistra e Vittorio Feltri no». L'ultima frasetta, di sicuro autoironica (chapeau), spiega il privilegio di potersi permettere i ripetuti fallimenti: tanto, se hai il pedigree ideologico e le apposite frequentazioni giusti, l'«avventura nel giornalismo italiano di alto livello» (pagina 12) è un diritto acquisito che nessuno ti può levare vita natural durante.
Disgraziatamente se io avessi fallito anche una volta sola, avrei fatto la stessa fine di Israele se mai avesse perso una guerra: spazzato via.Detto questo, messi i puntini sulle i, Amascord è un libro che, a dispetto del titolo, non si dimentica.
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