«C'è chi soffre soltanto d'amore, chi continua a sbagliare il rigore». Sono in tanti in quei giorni di gennaio del 1975 a canticchiare sotto voce, come un tarlo nella testa, questa stramba canzone di Cochi e Renato. È la sigla finale di Canzonissima, con Raffaella Carrà come padrona di casa, e da una settimana è in testa alle classifiche di vendita. Gli autori, oltre a Ponzoni e Pozzetto, sono Enzo Jannacci e Beppe Viola. Il primo e l'ultimo si sono però dimenticati di firmarla. Il ritornello è una promessa di ottimismo. «E, la vita la vita, e la vita l'è bela, l'è bela, basta avere l'ombrela, l'ombrela, ti ripara la testa, sembra un giorno di festa». L'undici di quel gennaio è un sabato di luna calante e in un ospedale di Firenze sta nascendo il secondo figlio di Laura Bovoli e Tiziano Renzi. Si chiamerà Matteo e per una strana sensazione di cabala e sentimento sono un po' tutti convinti che sarà un bambino fortunato. I parenti, soprattutto quelli di Rignano sull'Arno, dicono che si vede da come sorride.
Sono passati 50 anni dall'inizio di questa storia e l'avventura, non solo politica, di Matteo Renzi resta incompiuta. Il fatto che non sia ancora riuscito a fissare un limite alla sua ambizione, alla linea dell'orizzonte, non è una debolezza. L'impressione è che neppure lui sappia davvero cosa farà da grande, perfino adesso che la cifra tonda lo porta con un certo fastidio a mettere a bilancio le sue vittorie bruciate in fretta e le sconfitte tipiche di chi per una lunga stagione ha fatto invidia agli dèi. È quella sciagura ormai fin troppo banale della hybris, che è l'alibi dei giovani rampanti che si ritrovano cinquantenni con un grande avvenire dietro le spalle. Renzi è un gambler eccezionale, un giocatore di poker che non sembra sbagliare una mossa, lucido, strategico, imprevedibile, cattivo più di quello che serve, spietato senza troppi rimpianti, così brillante da illuminare qualsiasi saloon, che praticamente ha perso una sola mano, ma proprio lì ha perso tutto. È l'all-in del 4 dicembre 2016, sul tavolo delle riforme costituzionali, quando un referendum controvento boccia con il 59 per cento dei voti la sua fortuna. Le carte erano buone, il gioco no. Matteo quella volta non capì che stava trasformando un referendum in una richiesta di plebiscito. Si sa come vanno certe cose, in particolare in Italia. Tu chiedi un voto per celebrare il trionfo, per certificare il fatto che sei il migliore, e la risposta è una pernacchia. Puoi dire che è invidia, che è qualunquismo, mal di pancia della plebe, fatto sta che queste cose non si chiedono. Te le prendi, magari dissimulando. Non puoi dire ai furbi che sei il più furbo di tutti. Se a questo ci aggiungi una promessa che non sai mantenere, «se perdo, mi dimetto», l'unica cosa saggia che ti resta è preparare le valigie, con l'accortezza di sparire per un bel po' di tempo. Non basta una settimana. «C'è chi un giorno invece ha sofferto e allora ha detto io parto, ma dove vado se parto, sempre ammesso che parto. Ciao!» Tutta colpa di Cochi e Renato.
Matteo, e qualcuno glielo aveva consigliato, avrebbe dovuto seguire l'esempio di quel furbone di Giovanni Giolitti che quando sentiva brutta aria, tipo lo scandalo della Banca Romana, si ritirava a Dronero, nelle valli delle alpi marittime, e spariva almeno per un paio d'anni. Renzi invece, da toscanaccio, anche se più o meno di Firenze e non di Arezzo, è rimasto lì a contare amici e nemici. È rimasto nel limbo del consenso, in quel luogo dove gli sconfitti non si rimpiangono, giocando partite argute senza più avere le carte. È così che anche gli spettatori hanno finito per dimenticarsi quale fosse la sua missione politica: strappare la sinistra e il Pd dai loro fantasmi. Rinnovarla, certo. Portarla fuori dal Novecento. Rottamarne le parole e se serve pure le solite facce. Renzi ha cercato di dare alla sinistra un'identità che non fosse solo il riflesso di un odio profondo e viscerale. Non puoi essere solo quello che non sei. Non puoi rappresentarti come antitesi: antiberlusconiani prima, antifascisti immaginari adesso. Matteo Renzi, boyscout, democristiano fuori stagione, margheritino rampante, presidente di provincia e sindaco di Firenze, vincitore di primarie contro un poetico Gianni Cuperlo e segretario unico del Pd, liquidatore di Letta con uno «stai sereno», mille giorni a capo del governo con il piglio di un Berlusconi di sinistra, apostata e destinato all'esilio senza fine, fondatore di Italia Viva e doppista sbagliato al fianco di Calenda, quasi un Franti nel libro Cuore, diffidato e diffidente, di almeno una cosa può sinceramente almeno fregiarsi: è il leader riformista della sinistra. I massimalisti apocalittici lo detestano, gli altri riformisti lo invidiano. Non c'è dubbio che lui abbia provato a dare risposte, che si possono condividere o meno, alle questioni strutturali che da troppi decenni fanno dell'Italia una palude economica e sociale. «C'è chi un giorno ha fatto furore e non ha ancora cambiato colore. C'è chi mangia troppa minestra e chi è costretto a saltar la finestra». Sempre quei due, Cochi e Renato.
È il Blair italiano che è rimasto a guardare il suo tiro in sospensione. Forse bisogna ammetterlo. La riforma della Costituzione era necessaria, per salvare lo spirito dei padri costituenti sommerso dalla democrazia dei like. Il plebiscito si è portato via la mossa utile per uscire senza troppi danni dalle «seconda repubblica». Siamo ancora qui con quel bicameralismo perfetto che non esalta il ruolo del Parlamento ma lo rende uno spazio vuoto dove troppo spesso ci si limita a abbassare un bottone senza neppure sapere bene perché. Non ci sono mai state ricette magiche per rilanciare l'economia e il lavoro e senza dubbio Elly Schlein vedrà nel «jobs act» solo due parole da disprezzare, un provvedimento che rende ancora più precari i lavoratori, ma se lo si guarda bene è il tentativo di fare i conti con una realtà che ha già reso il posto fisso un miraggio per pochi. Ora che l'intelligenza artificiale farà il resto sarà ancora più stolto limitarsi a rimpiangere il Novecento.
Renzi vede le cose, ma le perde per il suo carattere. Se ne accorse Berlusconi al tempo della prima elezione di Mattarella al Quirinale: una stretta di mano non basta. Il capolavoro tattico che manda a casa Conte per aprire le porte a Draghi è anche una rappresentazione di sottile perfidia. Giorgia Meloni, altra leader riformista, difficilmente si fiderà di lui.
La scommessa sarà vedere come sarà Renzi da vecchio, quando avrà forse meno bisogno di vivere di azzardi e lente vendette. Non è affatto detto che invecchiando si diventi più buoni, anzi. «E, la vita, la vita l'è strana, basta una persona che si monta la testa, è finita la festa». Buon compleanno Matteo Renzi.
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