![Vila-Matas fa resuscitare il fantasma dello scrittore](https://img.ilgcdn.com/sites/default/files/styles/xl/public/foto/2025/02/08/1738998469-ajax-request.jpg?_=1738998469)
Enrique Vila-Matas è uno scrittore premiato dalla critica e amato dai lettori. Montevideo, il suo ultimo libro (Feltrinelli, pagg. 215, euro 19, traduzione di Elena Liverani), è stato considerato alla sua uscita in Spagna, suo Paese natale, «il miglior romanzo dell'anno» e la quarta di copertina ospita pareri entusiasti di autori fra loro diversissimi come Paul Auster e Emmanuel Carrère. Il titolo rimanda a un racconto di Julio Cortázar, La porta condannata, storia di una porta nascosta in una camera d'albergo di quella città, l'hotel Cervantes, dietro la quale si sente il pianto di un bambino, un pianto sommesso e insieme misterioso, nel senso che quella porta separa il mondo reale da quello fantastico. Cosa ci sia in quel mondo fantastico, Vila-Matas non lo dice, e noi, non avendo letto il racconto di Cortázar non lo sappiamo, ma comunque per Vila-Matas non deve essere importante: quella porta è un simbolo, va da sé, una via d'uscita, se non una scappatoia.
Come molti di quelli che non scrivono romanzi, per incapacità o perché è un genere che non gli piace, Vila-Matas scrive romanzi sull'impossibilità di scrivere romanzi. Parte dalla finzione di un blocco narrativo e da lì inanella una nuova serie di partenze che sono false partenze: iniziano, ma non hanno una fine, se non un altro inizio, più o meno artificialmente collegato. Come egli stesso scrive, «pensai di aver scoperto che scrivevo romanzi per poter iniziare, quando li avevo finiti, ciò che mi interessava davvero: l'eroica ricerca di una via d'uscita da loro». È una confessione disincantata e però ingannevole, nel senso che la fine, in realtà, è un labirinto da dove non si esce mai. È il risultato tipico di chi, avendo preso su di sé «un fardello così pesante come l'aver preso posizione contro le trame nei romanzi», si ritrova a dover constatare che ciò a cui mira e insieme ciò che lo interessa è da un lato «una biografia del mio stile che mi pare io stia iniziando a scrivere» e, dall'altro, e più in profondità, una sorta di «prosa intempestiva, qualche lieve appunto di vita e letteratura con cui starei cercando di scoprire chi sono veramente e chi è il mio scrittore preferito».
Va detto che principalmente Vila-Matas è un citazionista, di quel genere mallarmiano che recita «ahimè la carne è morta e ho letto tutti i libri»... Vila-Matas dà davvero l'impressione di aver letto tutto e quello che non ha letto se lo inventa per poterlo al momento giusto citare. Alcune citazioni, vere e non apocrife, sono interessanti, tipo quella che riguarda Baudelaire, a cui non piaceva la vita modera e però allo stesso tempo ne era affascinato: «La sua antimodernità in realtà rappresentava la modernità artistica, quella che opponeva resistenza alla vita moderna pur essendo irrimediabilmente implicata in essa (...). E non è forse questo che Nietzsche gridava a Torino e che per essere veramente contemporanei bisognava essere leggermente inattuali, mantenere una distanza critica che ci permettesse di accennare una discrepanza politica con il presente?».
Finora abbiamo identificato il protagonista del romanzo con il suo autore e quest'ultimo, così come un qualsiasi lettore, potrebbe obiettare che no, non è così, e avrebbe ragione. Da grande amante delle citazioni, Vila-Mastas ci ricorda del resto che Je est un autre, come diceva Rimbaud, cioè «Io è un altro», e ha poco senso inchiodare un romanzo alla biografia di chi lo ha scritto. Però noi pensiamo di non avere in fondo tutti i torti, nel senso che l'autofinzione ha a che fare con una poetica vila-matana dove i generi si dissolvono sì, ma il filo conduttore è una sorta di impossibilità di essere un altro che non sia sé stesso. Un'indicazione in tal senso la dà anche il risvolto di copertina, che per quanto possa essere redazionale contempla sempre l'imprimatur dell'autore, dove, dopo aver citato all'inizio «il protagonista del romanzo», poche righe dopo possiamo leggere: «Per Vila-Matas le porte diventano così simboli che collegano Parigi, Cascais, Montevideo, Reykjavik e Bogotà, e che soprattutto lo aiutano a recuperare la sua vena smarrita, fatta di schegge di vita vissuta, inventata o segreta, conversazioni avvenute o totalmente fittizie, incontri reali o mai avvenuti, lacerti di testi davvero esistenti o solo immaginati»... Aiutano, se la sintassi non è un'opinione, Vila-Matas, non il protagonista del romanzo, di cui, va da sé, non potremmo inoltre stabilire verità o menzogna...
Un altro elemento che permette di anteporre l'autore al suo alter ego romanzesco è di carattere generazionale. Entrambi appartengono a quella degli anni Sessanta, in cui, da ventenni, ci si appassionava a Rayuela. Il gioco del mondo, ancora di Cortázar: «Detestavo quel romanzo perché piaceva ai giovani della mia età che volevano far parte di una generazione, cosa che mi aveva sempre lasciato freddo, indifferente. In effetti pensavo che, se avessi dovuto appartenere a una generazione, avrei preferito essere un nordamericano in esilio nonché essere di un'altra epoca, uno scrittore degli anni Venti, stile generazione perduta (...). Non ero un fan di Cortázar, ma nemmeno un detrattore». E così il debito di aver scritto Montevideo partendo da una suggestione di Cortázar viene con nonchalance rispedito la mittente...
Altro elemento generazionale è la constatazione che Vila-Matas fa fare al suo Doppelgänger. «Ma davvero volevo tornare a narrare storie in un'epoca in cui l'arte di viaggiare e speculare nelle regioni del tessuto logoro, cosa che non avevo problemi a identificare pienamente con la letteratura, si trovava già in piena liquidazione, sostituita dall'epica del trans-infantilismo, della sordida ambizione degli arrivisti, della sincerità impossibile di certa non fiction, degli scribacchini di brutture senza la minima esperienza letteraria e di tante e tante altre tendenze narrative promosse dall'internazionale dell'Usura?». Be', ci si potrebbe astenere dallo scrivere, semplicemente, evitando in tal modo la retorica della narrativa al suo impasse, dell'impossibilità di scrivere continuando però a scrivere sull'impossibilità di scrivere...
Montevideo appartiene insomma a quel genere di romanzi costruiti sulla fine del genere romanzo, un tic o un vezzo che continua a perpetuarsi da quando, essendo stata decretata la fine del romanzo, il romanzo ha tuttavia continuato a fiorire e spesso e volentieri ha dato vita a una serra rigogliosa e profumata. Di quel genere Vila-Matas è un esempio insigne in quanto un esempio intelligente, proprio di chi il gioco letterario lo padroneggia nella sua capacità di romperlo dall'interno, svelandone i meccanismi, per poi ricostruirlo su altre logiche, nelle quali però i pezzi non combaciano e si ha un aborto di romanzo, un po' come la «creatura» di Frankenstein sta allo scienziato che gli ha infuso la vita. Questo atteggiamento da funesto demiurgo è probabilmente ciò che ne fa uno scrittore che piace agli scrittori e ai critici che si considerano tali: permette l'irrisione, il pastiche e la sperimentazione ed evita di interrogarsi sulla propria incapacità di costruire una storia che abbia un senso e significhi qualcosa. È anche per questo che piace al lettore, perché lo solletica nell'idea che tutto in fondo sia possibile, che bastino tranches di vita vissuta e/o immaginata le quali, più o meno ben assemblate, diano un prodotto finito. Per certi versi, quel tipo di lettore rimanda al «fantasma dello scrittore» di Roland Barthes, che il citazionista Vila-Matas cita in Montevideo: «Si trattava di uno spettro, sosteneva, che un tempo, per una certa gioventù francese, governava e che era praticamente scomparso quando in Francia aveva cominciato a essere raro trovare un adolescente che rimanesse colpito dall'incontro con uno scrittore seduto a un caffè e che pensasse di voler diventare un giorno come lui».
L'impressione è che quel fantasma sia riapparso, modernizzato: non vuole diventare uno scrittore «meno la sua opera», ma la sua opera «meno la scrittura»...Al termine di Montevideo mi sono rimesso a leggere La linea d'ombra di Conrad e mi sono riconciliato con il romanzo, con la scrittura e con la vita.
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