San Paolo «Sono riuscito a tornare in Venezuela grazie al popolo». Così ieri il presidente costituzionale ad interim Juan Guaidó di fronte a migliaia di suoi concittadini che hanno preferito passare il loro lunedì di Carnevale nella piazze di Caracas e delle principali città del paese sudamericano piuttosto che in spiaggia, come aveva invitato a fare il presidente di fatto Nicolás Maduro. Il rientro in patria di Guaidó non era affatto scontato, dopo che lo scorso 23 febbraio la dittatura aveva impedito l'accesso degli aiuti umanitari di cui tanto i venezuelani hanno bisogno e lo aveva minacciato di arresto. In tutta risposta Guaidó aveva iniziato un tour latinoamericano che lo aveva portato in Colombia, Brasile, Argentina, Paraguay ed Ecuador ma, man mano che passavano i giorni, il dubbio del suo ritorno era venuto a molti. Anche perché il dittatore, che dal 10 gennaio scorso usurpa il potere, aveva detto chiaramente a Guaidó: «Se torni a Caracas ti attende la galera», paventando una condanna di 30 anni di carcere contro di lui.
Al di là degli ambasciatori di numerosi paesi europei che ieri hanno accompagnato Guaidó dall'aeroporto sino al palco in centro a Caracas dove ha poi ringraziato «il popolo» che gli ha fatto «da scudo», il suo ritorno in patria è stato possibile soprattutto per l'appoggio senza se e senza ma di Washington. «L'integrità e la libertà del presidente costituzionale ad interim Juan Guaidó in Venezuela è della massima importanza per gli Stati Uniti. Qualsiasi minaccia, violenza o intimidazione contro di lui non sarà tollerata e avrà una risposta rapida. Il mondo sta guardando. Il presidente Guaidó deve essere autorizzato a rientrare in Venezuela in sicurezza». Così il vice di Donald Trump, Mike Pence, sempre moderato ma ieri - pochi minuti prima dell'atterraggio di un volo Copa Airlines da Panama su cui Guaidó è arrivato a Caracas - per una volta chiaro come il sole: «Se Maduro arresta quello che per noi è il presidente costituzionale del Venezuela, la risposta sarà immediata». Immediata e «dura» aveva chiarito qualche ora prima alla Cnn John Bolton, consigliere per la sicurezza di Trump. Che, giusto per chiarire il concetto ai duri d'orecchio dell'Avana, aveva poi aggiunto tre cose. Primo, «non abbiamo timori a ribadire la dottrina Monroe» ovvero l'America agli americani, secondo «è intollerabile che Cuba abbia 20-25mila uomini con cui difende la dittatura in Venezuela» e, soprattutto, «stiamo lavorando per formare una coalizione per rimpiazzare Maduro». Un concetto che significa «il socialismo alla cubana in Venezuela scordatevelo perché ne va della nostra sicurezza nazionale». La realtà dei fatti è che, al momento in cui andiamo in stampa, le minacce di fare arrestare Guaidó, tanto di Maduro quanto della Corte Suprema che gestisce a piacere la giustizia bolivariana presieduta dal due volte omicida Maikel Moreno, sono cadute nel vuoto.
Ieri Guaidó è infatti atterrato a Maiquetia, l'aeroporto internazionale di Caracas, superando tutti i controlli doganali senza problemi e senza che il suo passaporto fosse trattenuto dagli agenti dei Saime, l'agenzia statale che emette i passaporti e che, come il catasto, le urne elettorali elettroniche e il carnet della patria, è gestita per la biometria dai cubani via exClé, una nebulosa società argentina con sedi in paradisi fiscali e «sperimentata» per primo da Jorge Rodriguez, lo psichiatra ministro della Comunicazione nonché fratello di Delcy, attuale vice di Maduro. Un segnale dall'Avana che, al di là delle minacce verbali, in Venezuela Maduro rappresenta il passato anche per loro.
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