Il 17 Marzo divide Calderoli e La Russa

Roma«Alla fine vedrete che sarà valsa la pena di fare la rivoluzione per via democratica... Fermi uomini! Fermi uomini!». Dopo trent’anni di ribollimenti autonomistici e venti esatti di Lega Nord il problema resta ancora quello: ma sarà poi valsa la pena di trasformarsi in partito romano, in Lega di governo? Due decenni per un partito sono una vita intera, se poi ci metti dentro un mezzo knock out per il capo carismatico è inevitabile che il tempo porti con se sconquassi e voragini. L’involucro è rimasto quasi identico. C’è sempre Bossi che comanda, ci sono gli stessi colonnelli con le loro truppe, il partito intanto è cresciuto, è sceso verso Sud, ha sfondato nelle regioni rosse. Ma mentre celebra il suo compleanno, la Lega si interroga - e seriamente - sul bilancio di questi vent’anni di molte battaglie ma altrettanti compromessi.
Il destino vuole che il momento in cui il federalismo, eterno mito inseguito dai comizi scamiciati di Bossi, passa per davvero dalle aule parlamentari, che mentre su Veneto, Piemonte e mezza Lombardia sventola bandiera verde, proprio adesso la Lega attraversi una stagione di grande difficoltà, forse la più seria mai conosciuta, se si eccettua la fase successiva allo shock della malattia. A «l’Umberto» si deve l’intuizione iniziale, mutuata, nell’ardore dell’«epoca eroica» (come Bossi chiamò l’attivismo dei primissimi anni ’80, con lui, Maroni e pochi altri) dalle rivendicazioni autonomiste elaborate dall’Union Valdôtaine di Bruno Salvadori, primissimo maestro. Però basta leggere il «manifesto» leghista, nelle parole del suo fondatore in quel febbraio del ’91, per misurare tutta la distanza dalla Lega attuale e farsi un’idea dell’inquietudine che sta attraversando la base leghista. Il modello svizzero, le macroregioni - teorizzate da Miglio - come forma di autogoverno chiamato a soppiantare l’assetto centralista e corrotto della prima repubblica, a vent’anni di distanza sono ancora un miraggio. Il radicalismo ruggente degli inizi, e poi del dopo-ribaltone, è stato messo da parte per sposare una linea di mediazione, fondata sull’alleanza con Berlusconi, come unica condizione realistica per «portare a casa» le riforme.
Bossi ha scommesso sulla bontà di quella scelta, perciò adesso sente di trovarsi di fronte ad una prova storica. Il federalismo fiscale, che è mezzo fatto, potrebbe diventare il primo vero trofeo autonomista che i padani riporterebbero da Roma. Dopo cinque legislature, un referendum (sulla devolution) bocciato e una malattia che sembrava dover spazzare via la Lega, Bossi potrebbe sbandierare, finalmente, davanti al suo popolo almeno un brandello di federalismo. Ecco le resistenze del segretario federale a far saltare tutto con elezioni anticipate, anche se la tentazione c’è stata. Ed è sempre da qui, dal logoramento che segue alla scelta di andare avanti comunque, unito alle manovre inevitabili per il dopo-Bossi, che nascono le fibrillazioni sotterranee dentro la Lega. Che non è mai stata così lacerata da visioni opposte sul cammino padano, da fratture, sospetti e ambizioni, anche se poi tutto resta sopito sotto il controllo del capo.
Resta difficile immaginare una Lega senza Bossi, anche se qualche leghista in grado di prendere il testimone c’è. Il «Senatùr» è riuscito negli anni, con diabolica astuzia, a fiutare l’aria e inseguire la pancia dell’elettorato, vestendo la Lega ora di anticlericalismo ora di contegno cristiano (quasi bigotto), ora di egualitarismo sinistroide ora di richiami xenofobici lepeniani, un po’ dalemiana e un po’ berlusconiana, moderata ed estremista allo stesso tempo. Un po’ poeta e bohemien brianzolo (esistono sue poesie e addirittura una canzone, Un ebbro, uno sconforto), un po’ ribaldo che inganna le donne, un po’ comunista (nel ’75 si iscrive alla sezione Pci di Verghera), Bossi ha applicato il suo istrionismo alla politica, facendone un’arte di governo. Pochi come lui sono capaci di annunciare una cosa e fare l’opposto, ingannare con minacce tonanti e poi trattare da democristiano. È grazie a lui che la questione settentrionale è passata dall’Unolpa (Unione nord occidentale laghi per l’autonomia), la prima formazione inventata da Bossi nell’80, ad un partito dal 10-11 per cento nazionale.
La Lega è diventata anche un modello di organizzazione e mobilitazione politica efficiente, di radicamento e selezione della classe dirigente, invidiato dagli altri partiti. Ma l’ingresso del figlio Renzo ha scardinato le consuete regole di iniziazione politica nella Lega e reso visibili le crepe in un meccanismo che sembrava perfetto. Acuendo il problema della leadership del partito.

Il congresso federale, che «sceglierà» se riconfermare Bossi, è sempre rimandato a data incerta. Ora c’è una questione più urgente, chiudere il federalismo, poi si vedrà anche se tutti escludono un passo indietro del capo. Che ha alle spalle, bene o male, vent’anni da leone.

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