Il gesto di Ratzinger e la solitudine dell’intellettuale ultimo monaco di Dio

Un ritratto di papa Benedetto XVI nei giorni delle sue dimissioni, scritto da Marcello Veneziani e pubblicato il 24 febbraio 2013

Il gesto di Ratzinger e la solitudine dell’intellettuale ultimo monaco di Dio

Alle ore venti di giovedì prossimo Joseph Ratzinger verrà restituito alla solitudine del chierico, asceta del pensiero e teologo in disparte. La conclusione della sua parabola può essere letta in un duplice senso simbolico: in chiaro è il Papa della Tradizione che spezza la tradizione stessa e fa prevalere le ragioni e i sentimenti personali e la vocazione monacale sull’impersonale maestà dell’Istituzione e del Magistero, sul ruolo di Pastore e di Santo Padre. Ma il rovescio della medaglia, da un punto di vista laico, è la riaffermazione della solitudine dell’intellettuale rispetto al suo tempo e alle istituzioni, quasi il rigetto del ruolo di intellettuale organico a un’ecclesia.

Due giudizi ante litteram gravano sulla sua rinunzia: quello assai noto e sfavorevole, di Dante, e quello meno noto e favorevole, di Petrarca. Ambedue si espressero a proposito dell’eremita Pietro da Morrone, più famoso come Papa Celestino V. Dante lo collocò all’inferno tra gli ignavi per il suo vile rifiuto. Petrarca, invece, ritenne che il Papa della rinuncia avesse agito nobilmente, «da uomo d’animo libero, ignaro d’imposizioni e davvero divino».

Alla solitudine dell’animo nobile e colto, oggi diremmo alla solitudine dell’intellettuale, Petrarca dedicò uno splendido testo (è possibile leggerlo con testo a fronte anche negli Oscar Mondadori, uscito nel ’92). Petrarca distingue tre tipi di solitudine: del luogo, del tempo e dell’animo. Il suo è il ritratto di un asceta umanista che legge le opere degli antichi e ne scrive «altre che saranno lette dai posteri», «portare gli antichi nel cuore, averli sulle labbra come qualcosa di dolce... vivo con l’anima in mezzo agli antichi». L’eternità in Petrarca si converte nel tempo e si volge al passato, ripensato nella solitudine dell’eremo di Valchiusa, dove in età matura ma non ancora grave Petrarca si è ritirato. Petrarca non è tuttavia solo un umanista, come sarà un Machiavelli, e non si limita a dialogare con i classici; è frate minore, è «cappellanus continuus commensalis» e alterna nella sua vita periodi di mondanità a periodi di ascesi. Da un verso c’è la vita di corte e l’intenso viaggiare, ma anche i figli illegittimi e le vicende amorose. Dall’altro verso c’è l’eremita del pensiero e la Provenza è il suo luogo eletto del ritiro, non lontano da Avignone dove in quegli anni ha sede il papato. Al di là della bellezza del testo in magnifico latino, De vita solitaria può essere letto anche con un significato ulteriore e allusivo alla crisi presente: la percezione di vanità dell’impegno spirituale e intellettuale nel mondo, la frustrazione di non poter incidere nella realtà tramite il pensiero e gli scritti, il bisogno di appartarsi e sottrarsi al baratro e alla barbarie che avanza: «Ciechi guidati da ciechi ci lasciano trascinare per luoghi dirupati... tutto questo male è generato dalla non conoscenza dello scopo». Oggi diremmo la sostituzione degli scopi della vita con i mezzi. Qui sorge il piacere della vita solitaria, la gioia del presente pur nel rimpianto del passato e nella percezione della decadenza. La solitudine di Petrarca è anche lontananza dalla donna, «fabbrica perpetua di liti e di tormenti», incompatibile con la vita mite. Adamo, nota il poeta, era in paradiso da solo; appena ebbe la compagnia decadde dal paradiso. Quando siamo soli, dice Petrarca, noi ci offriamo a Dio, Gli apriamo la nostra anima e deponiamo «Il velame dell’inganno». Sembra questa la spiegazione del gesto di Ratzinger e di Celestino V, la verità raggiunta in solitudine, l’ascesi come premessa per l’incontro con Gesù Cristo. Una via che sconfessa la missione della Chiesa e la comunione dei fedeli. (Per la cronaca, anche Pietro, come Ratzinger, aveva un giovane fedele al suo fianco; il suo Padre Georg si chiamava Robercivescovo). Petrarca scrive che «Fra tanti solitari solo con lui - Pietro - avrei desiderato vivere» e critica coloro che filosofeggiano dalle cattedre ma «nella vita pratica fanno i pazzi». Il rifiuto della cattedra di Pietro diventa rifiuto di ogni cattedra. Paragonando la scelta di Pietro l’Eremita a quella di Maria e di Marta sua sorella, Petrarca nota che Cristo predilige il modello di vita contemplativa scelto dalla Maddalena pentita rispetto alla vita attiva di sua sorella Marta. Petrarca distingue tra solitudine e desolazione, ritenendo che la vera solitudine sia benefica a molti e non solo a colui che la pratica. Splendida è la pagina petrarchesca di abbandono del vivere urbano: «Lasciamo la città ai mercanti, agli avvocati, ai sensali» e l’elenco continua puntiglioso, non risparmiando nessuno, neanche parassiti, ladri e perdigiorno. «Lasciali perdere, sono diversi da noi» e a nulla vale tenere al patrimonio, che finirà ad eredi ingrati o perfino a nemici; al corpo, platonicamente considerato nostro carcere, che sarà «preda dei vermi e delle upupe»; all’anima, che finirà nel Tartaro, e al nome, che sarà dimenticato. Un soprassalto di malinconia che ricorda il medievale «homo? humus, fama? fumus, finis? cinis» (l’uomo sarà terra, la fama fumo e la fine cenere). Il motivo ascetico-religioso s’intreccia al ritiro dalla vita pubblica, al disincanto per la storia e alla disillusione verso i poteri mondani. La riflessione di Petrarca spiega la scelta di Ratzinger, conforme alla sua indole intellettuale e spirituale che lo porta alla solitudine dello studioso e dell’umanista e a rifuggire dalla vanità dei poteri, col suo strascico di veleni. Ma la sua rinuncia ha due chiavi di lettura: una escatologica ed ecclesiale, richiama la crisi spirituale della Chiesa in un mondo che le volta le spalle, l’irreligione che avanza in Occidente e i dubbi che tormentano anche gli spiriti più religiosi. L’altra lettura, laica e umanistica, sottolinea il disagio dell’intellettuale estraneo alle logiche di potere e agli intrighi di corte. Il chierico si fa monaco. Sentirsi fuori luogo e fuori tempo, in un posto che non è quello che gli si addice e in un’epoca che volta le spalle al sacro. In quel preciso punto d’intersezione tra le due ragioni si situano il gesto di Ratzinger e il testo di Petrarca.

Un gesto che volta le spalle al magistero pastorale della Chiesa e al ruolo di Pontifex, ponte tra i fedeli e il divino, ed è proteso a incontrare Dio senza mediazioni ecclesiali, ma tramite preghiere, meditazioni e mediazioni intellettuali. Da solo a Solo.

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