"Addio Compagni" Vendola vuole trovare soltanto degli Amici

Amici, compagni, camerati, concittadini. E i dubbi di Nichi su come ci si deve chiamare sfociano in polemica

"Addio Compagni" Vendola vuole trovare soltanto degli Amici

Amici, compagni, camerati, concittadini. Come cavolo ci si deve chiamare? Nichi Vendola deve averci pensato a lungo in questi caldi giorni d’estate, con i trenta gradi a picco sulla testa e l’Italia circondata dagli speculatori. Ognuno in fondo passa il tempo a lambiccarsi il cervello come meglio crede. Tremonti lo fa, anche lui sudando, sui conti della manovra, cancellando, riscrivendo, con le telefonate di questa o quella lobby che protesta, con l’allarme sui conti pubblici che sta diventando una corsa contro il tempo, mentre le notizie che arrivano dalla Libia hanno un sapore di austerity.

I tormenti di Nichi sono più filosofici. Compagni? Sa di vecchio. Camerati? Non sia mai. È una parola che neppure Fini è riuscito a sdoganare. Concittadini? Cittadino Vendola suona bene. Però sa troppo di ghigliottina. Sta meglio in bocca a un Flores d’Arcais o a un Asor Rosa. Il romanzo vendoliano ha bisogno di qualcosa di più popolare, sentimentale, condivisione, terra, destino, convivialità, sagra dotta e paesana. Amici. Ecco amici è perfetto. Amici come amici miei, boccaccesco. Amico perché lo guardi in faccia e ti riconosci, come un sorcino, come in una vecchia canzone di Renato Zero. Amico come gli amici degli amici. Amici, certo, che fa molto democristiano. Ma in fondo cosa c’era di più popolare della vecchia Dc?

Questo è il sogno di Vendola, diventare il profeta del compromesso storico, realizzarlo e divinizzare quello che Moro e Berlinguer avevano lasciato incompiuto. Amici è un ritorno al passato, la reazione al berlusconismo che rimette insieme le forze della sinistra Dc e dell’epopea del Pci. Nichi così si è convinto. Amici è la sua parola. Con questo spirito si è recato alla presentazione dell’ultimo libro dell’amico Goffredo Bettini. Con un titolo adatto alla rivelazione: «Oltre i partiti». Vendola dice: «Nel Pci mi dicevano che non si doveva dire amico, che bisognava dire compagno. Ho passato tutta la vita a ripetermi questa frase. Ma ora ho capito che era una stronzata, perché è stato un alibi per molti crimini. Io preferisco stare con molti amici, che mi aiutano a crescere».

A questo punto uno potrebbe dire: ma chi se ne frega di come vi chiamate? Fate come i liberali che, da individualisti, si limitano a chiamarsi per nome. Invece no. Il dilemma di Vendola diventa dibattito. Il web si divide in «amici sì», «amici no». C’è chi scrive: «Caro Nichi, spero sinceramente in un dietrofront da parte tua». Un altro sputa: «Nel tentativo di piacere un po’ a tutti ti stai vendendo pure la pelle. Che schifo». Qualcuno lo ammonisce: «La parola compagno deve essere come il tuo orecchino». Molti invece vanno già scrivendo amici dappertutto. Uno un po’ più saggio fa notare che «tutta questa discussione non ha senso». Sul sito di Repubblica si deve scomodare una firma come Ceccarelli per dire: «Amici? Meglio niente». Alla fine a Nichi tocca spiegare: «Non ho mai rinunciato ad una parola che mi accompagna sin da quando ero ragazzino: compagno. Parola che trovo bellissima, e che significa spezzare il pane insieme. Ho semplicemente criticato un’idea che nel vecchio Pci era abbastanza consolidata, che all’interno del partito bisognasse essere compagni ma non necessariamente amici».

Come chiamarsi, allora? Forse bisogna fare come ai tempi dei Ds, sopire le polemiche restando indefiniti.

Si potrebbero chiamare «coso». Coso va bene, non fa danni. Vendola incontra Bersani e abbracciandolo dice: ciao coso. Con il coso si sfanga anche questa estate. Ma non lo dite a Tremonti, che intanto conta. Conta e suda.

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