Addio a Endrigo il cantautore della malinconia

Cesare G. Romana

Se ne vanno, uno per uno, i grandi solitari della canzone. Prima Battisti, poi De André, e Bindi, e Bertoli, ora Endrigo. Come se il mercato avesse stretto un patto scellerato col destino, per liberarsi dei talenti più indocili, meno inclini alla generale omologazione del gusto e delle mode.
Tale era Sergio Endrigo. Gentiluomo d’altri tempi, che di quei tempi aveva serbato l’onestà intellettuale, l’educazione, la misura. Le umili origini, la faticata gavetta non bastarono a disperdere quel tratto aristocratico che fece di lui, nella volgarità dello show business, un’apprezzabile rarità.
Istriano di Pola, si trasferì a Venezia facendo l’ascensorista al Danieli, poi il cantante da night: Cole Porter, Gershwin, Bing Crosby, Sinatra i suoi riferimenti. Seppe che, a Milano, Nanni Ricordi cercava voci nuove, si presentò e Nanni gli chiese: «Ha mai scritto niente?». Endrigo tornò con un paio di brani, I tuoi vent’anni e Aria di neve. Ricordi li fece ascoltare a Gino Paoli, gli chiese: «Disegneresti la copertina per un disco del genere?». Paoli rispose: «Eccome». E il disco uscì.
Tra i proto-cantautori, tutti genio e sregolatezza, il nuovo arrivato portò un’insolita compostezza. Anche alle prime della Scala Paoli esibiva jeans e maglione, Bindi sfoggiava pellicce sontuose e brillanti al dito, Endrigo saliva in scena in abito scuro, cravatta e camicia bianca, cantava immobile, sporgendo la mandibola come per indirizzare al cielo la sua voce gentile. Stava sul palco con l’atteggiamento imbarazzato di chi si trova là per sbaglio, gli altri cantavano con ugole disastrate, lui faceva vibrare, come una viola, la sua voce da tenorino di grazia, i suoi falsetti tersi.
Sembrava fatto per l’elegia melanconica (Era d’estate, Vecchia balera, Canzone per te, con cui nel 1968 vinse un Festival di Sanremo in coppia con Roberto Carlos) o per cesellare il profilo più estatico dell’amore (Io che amo solo te). Eppure era capace di scarti imprevedibili: come nella rabbiosa Basta così («Perché il baciamano d’un cretino/ per te/ è tanto, tanto più importante di me?»). Capace anche di cantare, con «Maddalena che regala notti bianche», l’esuberanza sensuale e trasgressiva della gioventù. Capace di rivendicare in Teresa la libertà dell’eros, in tempi così puritani. Di dar vita al bozzetto noir di Via Broletto e perfino di bollare, ben prima che questo divenisse una moda, l’insensatezza della guerra: musicando, con Il soldato di Napoleone, una delle Poesie a Casarza, di Pier Paolo Pasolini, poi in La guerra, infine con quella paranoica figura di reduce che è il protagonista di La guerra dell’Ex.
Era, insomma, assai più versatile di quanto i suoi detrattori sostenessero. Tanto da offrire musica e voce anche a versi di grandi poeti: il già citato Pasolini, ma ancora Gianni Rodari in alcune straordinarie canzoni per bambini, eppoi Rafael Alberti (La colomba), José Martì (La rosa bianca), Nicolas Guillen (Se è lontana, Rafael), Vinicius de Moraes. Col quale, era il 1971, realizzò un disco magnifico e negletto: Vinicius, con Toquinho, cantava e recitava sue poesie, poi Giuseppe Ungaretti declamava, nel suo modo ruggente, altre liriche di De Moraes, infine Endrigo ne cantava alcune canzoni - memorabile Poema degli occhi -, tradotte col fido Bardotti.
Ottenuto il successo, non si rese mai conto d’averlo raggiunto. Dice Gino Paoli: «Mentre Io che amo solo te furoreggiava nel mondo, lui mi diceva: “Chissà se, prima o poi, riuscirò a sfondare”». Era costituzionalmente incapace d’esser felice, il che ne accresceva il fascino umbratile. Sempre, tuttavia, permeato di cortesia antica, incapace di esplosioni umorali o di invettive esplicite. Dopo avere inciso, nell’ultimo ventennio, cinque album mal distribuiti e per niente promossi, accusava l’industria del disco di essere fatta «di venditori di carta igienica passati alla musica». Ma lo diceva - e lo ribadì in un romanzo-libello pubblicato in Svizzera - senza astio, con ironia melanconica.
Un anno che, a Sanremo, portò una canzone in difesa della nostra musica contro l’esterofilia imperante, lo accusai, scioccamente, di sciovinismo. Lui mi cercò e disse, educato come sempre: «Sciovinista io, che ho cominciato cantando Gershwin? Volevo solo dire che i nostri autori, all’estero, se li sognano. Comunque, amici come prima», non mancò di concludere. Ci siamo sempre dati del lei, come gentiluomini d’antan: e non era estraneità, ma rispetto.
Ovvio che il mondo d’oggi gli sembrasse un’incomprensibile babele, figurarsi poi la musica dei giovani («Noi scrivevamo per tutti, dai ragazzi ai vecchi, oggi si scrive solo per i teenager», diceva). Il rock? «Io mi fermo ai Beatles - confessava -, non capisco perché la musica debba far tanto chiasso e basarsi solo su due accordi». I nuovi comici? «Fondano tutto sul turpiloquio: se l’immagina Totò o Buster Keaton che dicono parolacce?». Il mercato? «Qui mi ignorano, a Cuba o in Brasile le ragazze mi fermano per strada».
Se lui faticava a capire il mondo e i suoi meccanismi, quei meccanismi, e con essi il destino, consumarono su di lui vendette feroci: la fine precoce della popolarità, la morte della moglie adorata, una malattia che gli impediva di sentire gli strumenti compromettendogli l’intonazione.

Il che rese ancor più dolente la sua separatezza dal mondo musicale, e forse dal mondo tout court. Così il circo della canzonetta reagirà, ora, alla sua scomparsa con smemorata indifferenza: e invece ha perso uno dei suoi eroi più veri, più puri.

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