Addio a Masetti, il primo italiano re delle 500

Enrico Benzing

La conversazione più schietta - e toccante - con Umberto Masetti, morto ieri a 80 anni, l'ho avuta soltanto l'anno scorso. Prima, fin dagli anni Cinquanta, non c'era verso di approfondire nulla. Era sempre distratto - o sopraffatto - da quantità di problemi esistenziali, fino a migrare oltre oceano. E anche quando è rimpatriato, non molti anni fa, sono sempre mancate le buone occasioni. Perfino il giorno in cui, passeggiando per Maranello, mi son sentito chiamare ed invitare calorosamente nella sua nuova abitazione, per parlare dei vecchi tempi e delle sue avventure sudamericane. Ma solo nell'incontro dell'anno passato, in occasione della presentazione del libro su Alberto Ascari, ho trovato il Masetti con cui avrei desiderato dialogare da sempre. Una rivelazione. Abbiamo parlato dei suoi tentativi sulle quattro ruote e per la prima volta l'ho sentito accennare, in scioltezza, alla grande svolta del 1953, quando la Gilera gli ha preferito Geoff Duke.
Per tanti anni, Masetti ha mascherato i fatti; alla fine, ha confessato che il suo grande dolore, causa dei noti dissidi, era nato nel momento in cui era venuto a conoscenza dei dettagli contrattuali offerti al campione inglese, con un ingaggio doppio. Non erano i soldi, ma il gesto. Lui era un pilota Gilera nell'anima. Aveva cominciato a correre a vent'anni - a quei tempi, non c'erano che centauri maturi e lui appariva giovanissimo - e, dopo le prime motoleggere concessegli dal padre, moto-concessionario, era subito passato in sella ad una grossa mezzo litro di Arcore, con la prima vittoria a ventitré anni. Lo ricordo nel 1949, con la mitica «Saturno», e mi chiedevo come potesse un ragazzo così esile (a Parma, lo chiamavano «Scarciole») dominare quella macchina, sui tortuosi circuiti dell'epoca. Aveva già la bocca piena di denti d'oro, in seguito ad incidenti. Fantastico, l'anno dopo era sulla quattro cilindri Gilera e diventava campione del mondo. Poche erano le gare, sei in tutto; bastavano due vittorie, Assen e Francorchamps, due corse tremende, per arrivare al titolo. Eppure, a Monza vinse Duke con la «mono» Norton. Sconcerto, dinanzi alla potenza della quattro cilindri. Delusione nel 1951, l'anno di Alfredo Milani. Ma ecco, nel 1952, con la stessa, precedente doppietta Olanda-Belgio, il secondo titolo. Discontinuità, certo. Strane cadute, nei momenti cruciali. «Genio e sregolatezza», dicevano taluni.

Ma alla fine del racconto più accorato, quello d'un anno fa, è stato facile concludere che il campione era stato gestito malissimo, nonostante la predilezione del celebre Commendator Gilera. Con qualche attenzione - e fiducia - in più i suoi allori si sarebbero moltiplicati incredibilmente.

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