Roma - Massimo D’Alema e Ronald Spogli, ambasciatore americano a Roma, avranno senz’altro da discutere nel faccia a faccia annunciato per quest’oggi. A cominciare magari da quanto rivelato ieri dai diplomatici olandesi: e cioè che i contenuti della lettera poi inviata a Repubblica in cui si sollecitava l’Italia a restare in Afghanistan, erano già stati inviati «ad alcuni ministeri italiani» prima della pubblicazione. Romano Prodi, questo, ieri lo ha negato. Ha detto di aver saputo della cosa quando lo chiamò al telefono il direttore del giornale. Ma a chi gli chiedeva perché non smentisse, ha fatto spallucce. Accreditando la voce di chi ritiene che a Roma lo sapessero in molti che da Washington stava partendo un siluro per il crescente anti-americanismo della coalizione di governo. Ma ormai sulla lettera aperta dei 6 ambasciatori pare il sipario debba calare. Nonostante D’Alema sia tornato ieri sulla questione. «All’ambasciatore americano - spiega il ministro degli Esteri - abbiamo detto: non è il caso che voi partecipiate al dibattito politico italiano». E ancora: «La verità è che si deve cambiare strada rispetto ad una politica che, a partire dalla guerra in Irak, non ha dato i frutti attesi. A volte capita di essere chiamati antiamericani perché si è d’accordo con il 70 per cento degli americani».
Resta, dunque, il «grande freddo» tra Washington e Roma e il sospetto di altri alleati Nato che l’Italia sia ostaggio della sinistra comunista.
Il problema in effetti c’è. Perché, ieri, dopo il vertice dell’Unione, sono state tante le conferme di indisponibilità a rifinanziare la missione in Afghanistan. Fosco Giannini (Prc) si è detto «sconcertato». Franca Rame pretende che sia detto «con precisione quando e come usciremo dall’Afghanistan». Lo stesso hanno dichiarato Rossi (Pdci) e Bulgarelli (Verdi), Giannini e Grassi (Prc), con Cossiga al fianco a ironizzare sul fatto che Prodi-D’Alema vorrebbero i nostri soldati in mutande.
Insomma, i numeri in Senato non ci sono. Che fare? Ed ecco che il duo di testa della coalizione pensa ad una soluzione bizantina che peggio non si può, ma forse capace di far rimanere a galla l’esecutivo. Si fissa un bel dibattito sulla politica estera in Senato, al termine del quale far votare un documento in cui si ricorda l’articolo 11 della Costituzione (il ripudio della guerra) e si mette nero su bianco che non si vede l’ora di uscire dall’Afghanistan. Questo viene votato dal centrosinistra e poi si va al voto sull’Afghanistan, non ponendo la fiducia, in modo da ricevere i voti del centrodestra. «Se i nostri voti fossero determinanti, Prodi si dovrebbe dimettere!», mette le mani avanti Gianfranco Fini. Ma a Palazzo Chigi già si sostiene che a contare sarebbe il voto sulla politica estera ricevuto pochi giorni prima e dunque il soccorso della Cdl sarebbe irrilevante. Un trucchetto da quattro soldi, ma che comunque l’Ulivo ritiene buono per salvarsi l’anima e il posto. Solo che anche con questa prospettiva alle viste, un problemuccio è sorto: l’Unione vuole che il dibattito e il voto sulla politica estera si tengano la prossima settimana, prima della manifestazione di Vicenza. Il centrodestra, vedendoci in prospettiva la possibilità di uno scontro duro tutto interno alla maggioranza, vorrebbe si tenesse dopo.
E, sempre sotto silenzio, il governo si è preparato all’appuntamento di oggi a Siviglia, dove i ministri della Difesa dei Paesi Nato sono convocati per fare il punto proprio sull’Afghanistan.
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