Roma - Gianni Alemanno su una poltrona del suo splendido ufficio capitolino. Sta parlando da otto minuti, si apre una porticina, sulla destra. Entra un collaboratore, chiamiamolo numero uno, con il telefonino A. Il sindaco si interrompe, affronta la grana (assessorile), annota un promemoria sul palmare, riparte: «Dunque, stavamo parlando di Fini...». Sei minuti e squilla il telefono sul tavolino. Il sindaco si interrompe, affronta la grana (municipalizzata, settore rifiuti) e riprende: «Dunque, stavamo parlando di Berlusconi...». Altri cinque minuti, ancora la porticina, un altro collaboratore, chiamiamolo due, telefonino B. Il sindaco s’interrompe, affronta la grana (cerimoniale) e riprende: «E sul partito unico...».
Altri sette minuti: rientra numero uno, telefonino A. Il sindaco si interrompe, discute (assessore, altra piccola rogna). Ricomincia: «Stavo dicendo: la mèta...». Mentre lo dice si illumina: un guizzo, apre un Moleskine nero, annota a penna. Sbircio. Un geroglifico. Chiedo: «Cos’è?». E lui: «Appunti per il discorso». Di nuovo il telefono sul tavolo. Altra grana. Altro appunto sul palmare. Di nuovo la porticina, numero uno, telefonino A. Io e Simone Turbolente, il portavoce, ci guardiamo. Alemanno stacca e riattacca, come se fosse normale. Gli dico: «Ha presente quelle partite di scacchi in cui il campione gioca in simultanea con dieci sfidanti? Lei è così». Alemanno scoppia a ridere: «Speriamo di dare scacco...». Altro appuntino sul Moleskine, stavolta l’altro lato: «Dietro annoto spunti ideali, davanti questioni tecnico-operative».
Lei era il più identitario dei dirigenti di An, come mai ora è il più tranquillo?
«Da Vespa, un giornalista di sinistra come Sansonetti ha detto: “Il Pdl nasce in un clima propizio: in Europa soffia un grande vento di destra”. È vero. Non c’è momento migliore per l’operazione».
Il vento può finire.
«Certo. Ma la gente sceglie la destra perché oggi è la risposta più seria e convincente alla globalizzazione e alla crisi. E allora dobbiamo approfittarne ora per fare un partito radicato nei valori identitari, moderno, riformatore, non regressivo».
Cosa intende per «non regressivo»?
«Che non cerchi risposte facili e scorciatoie: protezionismi, xenofobie, mancanza di attenzione alla giustizia sociale».
Per lei la sinistra non è credibile?
«No. Perché di fronte alla crisi reagisce con un cosmopolitismo a priori, e negando le paure della gente. Loro sono astratti, noi viviamo nella realtà».
Cosa sarà il Pdl, più di An?
«Sarà più di An e più di Forza Italia: un progetto di rilancio nazionale, che riafferma le sue radici identitarie per proiettarle verso il futuro. Governare non basta».
In che senso?
«Bisogna evitare due derive: il paternalismo e il conservatorismo. Offrire un’idea di partecipazione, partire dall’etica di una nuova cittadinanza, dalla definizione di diritti e doveri di ognuno».
Alla vostra destra la Lega punta sull’identità locale e guadagna voti.
«Dobbiamo tenerne conto, ma dobbiamo essere meno difensivi: puntare a un’Italia capace di guardare in Europa. I flussi migratori, ad esempio, vanno regolati, ma non possono essere interrotti».
Come si fa a conciliare le due cose?
«Ad esempio favorendo l’immigrazione rotazionale. Gli stranieri vengono in Italia, lavorano anni, e poi tornano a casa. L’importante è che la legalità, le leggi e la nostra identità vengano rispettate».
Esempio concreto: la grande polemica sulla facoltà concessa ai medici di denunciare gli stranieri.
«Sono convinto che queste idee non vadano enfatizzate: si rischia non solo di dare un’immagine negativa ma di ostacolare l’attività della sanità pubblica. Noi siamo alleati della Lega, ma non dobbiamo subire la loro egemonia».
Da un lato c’è il rischio radicalizzazione, dall’altro quello di moderatismo?
«Non bisogna commettere gli errori della vecchia Dc, pur rispettando la funzione storica svolta da questo partito. Non dobbiamo amministrare senza progetto e regalare l’idea di futuro alla sinistra».
Che rischio corre chi viene da An?
«Il freno a mano tirato. E poi, ovviamente, la riserva indiana!».
Prego?
«Il freno è uno stato d’animo. Pensare di stare nel Pdl, ma per frenare quel che viene da Forza Italia».
E la riserva indiana?
«Entrare nel Pdl con il complesso della nostalgia addosso».
Però il rischio annessione c’è.
«Tutte sciocchezze! Il Pdl assomiglierà molto poco anche a Forza Italia».
Mi convinca.
«Primo: noi di An siamo un popolo politico caratterizzato e coriaceo. Secondo: le nostre idee sono già nel Dna di tutti».
Mi faccia un esempio.
«La metamorfosi di Tremonti, da liberista alla critica del mercatismo affine a quella della destra sociale».
Perché ha chiesto il voto segreto?
«È un problema superato, deciderà il congresso. Ma non era una proposta contro Berlusconi. Al contrario: il consenso strutturato rafforza la leadership».
Due leader sono troppi?
«Fini porta la politica e le istituzioni. Berlusconi il contatto con la gente. È un mix vincente».
Lei nel Pdl porta la Thatcher o Peròn?
(Sorriso) «Semmai De Gaulle. Vedrà...».
È una passione recente?
«L’ho studiato un po’. E ho scoperto, per esempio, che introdusse il quoziente familiare già nel 1946!».
La riduzione delle tasse in base al numero dei figli. È uno dei suoi pallini.
«Già! Pensi che De Gaulle cadde perché voleva una forma di partecipazione dei lavoratori ai profitti di impresa».
Proprio come lei.
(Altro sorriso). «Io vorrei introdurre la partecipazione, ma non cadere».
E se Berlusconi deciderà tutto?
«È stato
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.