ALEXANDRE DUMAS

Il 24 luglio 1802 emersi dal parto nerastro, e quasi strangolato dal cordone ombelicale emisi un gorgoglio, respirai, evolvetti al viola. Per il sollievo di mia madre, la quale due mesi prima s’era fermata al teatrino delle marionette dove Pulcinella era tirato all’inferno da un diavolaccio, che l’aveva impressionata. Tanto da convincersi che gli sarei assomigliato.
Ma, per essere bruno, non avrei avuto bisogno del diavolo. Quel cinque di Termidoro nell’altra stanza c’era infatti anche mio padre, il quarantenne mulatto Thomas Alexandre Davy de la Pailleterie. Colosso, nato a San Domingo dalla schiava Marie Cessette-Dumas, amante del marchese Davy de la Pailleterie. Mio padre, dragone di un metro e 95 ed epico gigione, divenne generale di divisione nell’Armata d’Italia. Nei fienili si afferrava alla trave maestra, e si sollevava da terra, cavallo compreso. Era uso pure infilarsi una canna di fucile per ognuna delle dita di una mano, e col suo braccio teso tenere le armi in perfetta linea orizzontale. Al Moncenisio trecento prigionieri alla volta; ma piangeva al ritorno d’ogni battaglia per i nemici uccisi. Quindi repubblicano, complottò, e finì in prigione. Ne uscì cieco d’un occhio e per sempre provato. Ma tra le quietissime nuvole di Villers-Cotteret trovò un riparo e la moglie.
Fu lui Porthos, ma non durò a lungo. Ma abbastanza per portarmi a quattro anni da Paolina Bonaparte discinta. Pure lui era stato suo amante. Mi piacque. Sei mesi dopo ero in un sonno beatissimo, con l’ossuta ma popputa cugina che mi badava, giacché mamma vegliava mio padre malato. A mezzanotte un colpo alla porta mi destò. Balzai in piedi, così sdegnato che saltando spaventai mia cugina, che tirò su le coperte e mi chiese: «Che c’è?». E io con la solennità dei bambini risposi: «Vado ad aprire a papà, viene a dirci addio». L’indomani per casa c’era confusione. Parenti, serve in preghiera, e un correre di tutti, dall’una all’altra stanza. Mi spiegarono che lui era morto. Ci pensai nell’aria di stordimento generale, e poi mi ritrovarono al piano di sopra. Ero salito su una sedia. Staccato dalla parete a fatica un fucile due volte più grande di me, lo abbracciavo, e sarei uscito così. Mi fermarono. Mia madre uscì chiedendomi dove andavo. Risposi: «In cielo». Lei pianse, e io: «Lasciatemi passare. Vado ad ammazzare Dio che ha ucciso papà».
Quale migliore debutto nel gioco della vita: per d’Artagnan, il quarto moschettiere. L’Impero non provvide alla vedova del generale in disgrazia; Bonaparte finì all’Elba, e tuttavia Mme Dumas ottenne una tabaccheria. Di pressoché totale ignoranza, giocavo però a biliardo con strabiliante perizia; a caccia: perfetta mira. Inetto al calcolo aritmetico, dunque economico; avevo però magnifica calligrafia. Mi misero perciò a bottega da un notaio, davanti al negozio dov’era Anne, che vendeva passamaneria. Un anno di corteggiamenti, baci furtivi, dita aggrovigliate e lei preferì un pasticcere. L’amore disilluso è ottimo in letteratura, tanto più essendo già inclini a divenire puttanieri. Evitai il seminario. Favorito in ciò da Adolphe de Leuven, discendente di svedesi regicidi. Costui era in campagna, a riprendersi dai vizi di Parigi. Mi leggeva versi di poeti, e proprio come Aramis era effeminato, non invertito.
D’Artagnan arrivò a Parigi dal capitano dei moschettieri del re, Signor di Tréville, a cavallo d’un ronzino e senza la lettera del padre. Io diciottenne ci arrivai senza neppure il cavallo, ma pervaso dallo stesso entusiasmo. Nel 1822, infatti, scappai dal notaio dove lavoravo e diressi per i boschi verso la capitale. Senza soldi, avevo il fucile; pagai in cacciagione gli alberghi per strada. Due notti a Parigi mi costarono quattro lepri, dodici pernici e due quaglie. E c’era la Comédie Française. Ne salii le scale. Non c’erano moschettieri in duello; ma attrici discinte, cervelli evaporati. Eppure pervasi pure loro della solennità che contornava Talma: quarant’anni di teatro, l’attore preferito di Napoleone, sopravvissuto al cambio di regime. Come in sogno, arrivai nel suo camerino, e Talma, che aveva conosciuto il generale mio padre, viziosamente tese la mano. Mi squadrò e tornando a essere serio, che per lui significava recitare, consigliò: «Toccatemi la fronte, Alexandre, vi porterà fortuna». E, in perfetta pausa, aggiunse: «E sia, ti battezzo poeta, in nome di Shakespeare, Corneille e Schiller».
Bastò perché decidessi di lasciare la provincia. Ma non mi feci rubare come d’Artagnan la lettera di raccomandazione per il generale Foy. Costui mi ricevette e chiese cosa sapevo fare. Quando, onesto, gli risposi «niente», ne dedusse ch’ero adatto all’amministrazione statale. Come Luigi XIII non poteva negare nulla al Signore di Tréville, così il duca d’Orléans non negava nulla a Foy, tribuno liberale. Folle di gioia, copiavo in bella calligrafia documenti; ma a Parigi. Due mesi e incontrai la mia signora Bonacieux. Si chiamava Labay. Era come Costanza, distante dal marito, graziosa, bionda, adatta al mio carattere infantile, essendo di poco più vecchia. Nel 1824 le diedi un figlio. Ma né lui, né la dozzina che ebbi da altre, mi ostacolarono. Vent’anni dopo ero già famoso, quando scoprii i libri noiosi su un guascone: Charles de Batz Castelmore detto d’Artagnan, e moschettiere di Mazzarino, morto con la gola squarciata nel 1673 all’assedio di Maastricht. Capii che v’era materia per scrivere, quietare i creditori e l’appetito.
Ero infatti nel 1844 già un ciccione, coi gilet setati tesi sulle curvature della pancia. Goloso di leccornie, ai pranzi ammettevo poveri e ricchi, con cordialità, pure se non erano invitati. Avevo gli occhi ottimisti, di chi è intento in perenne colazione. Gli occhi di chi non può essere giudizioso, perciò è felice. Ma deve scrivere per dilapidare denaro in lauti pranzi e donnoni. Convocai il buon Maquet. E lui compose la prima stesura del romanzo di d’Artagnan. La rividi, vi aggiunsi accelerazioni, divagamenti, pause, e la generosità di quell’inno all’eroismo e all’amicizia, che è il romanzo. Cavalcate, trappole, tafferugli, amori, osti, dame. Mi riuscì il miracolo di far credere a ogni lettore di poter mangiare e amare come i quattro moschettieri. Scrissi invero romanzi a decine usando «negri», come Maquet. Dovevo l’abbondanza delle facoltà artistiche al dispendio che ne facevo. E come d’Artagnan, abbisognavo d’eccessi di vita. E da quella scrittura plurima uscì il miracolo di un libro a strati, ma sentito da tutti, come quelli d’Omero.
Allora gli invidiosi pretesero che Dumas fosse un altro o non esistesse. Sommo privilegio omerico. Abbracciai, e in pubblico elogiai Maquet; lui pianse. Ero io quel Dumas che non crebbe mai, e perciò riuscì a dare epica perfetta alla giovinezza. Quella d’un incosciente che venne a conquistare le simpatie più preziose, quelle dei cani, delle donne bugiarde, dei figli.

Perciò un giorno mio figlio mi scrisse: «Caro grand’uomo, ingenuo e buono, che mi avresti dato la tua gloria, come mi davi i tuoi quattrini quando ero giovane e pigro, sono felice di inchinarmi davanti a te... ». Il perfetto elogio di Athos a me, vecchio d’Artagnan.
(10. Fine)

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