Quando lo avevano nominato ministro della Giustizia, gli avevano predetto un futuro pieno di grane. Tra tutti gli incarichi di governo, il suo era considerato il più scomodo. Giornate dure all’orizzonte, insomma, per lui. Quella di ieri doveva essere una delle più dure. E per essere dura, lo è stata, eccome: Massimo Donadi dell’Italia dei valori gli ha perfino urlato in faccia che avrà sulla coscienza i morti ammazzati dai delinquenti che i magistrati - causa il freno alle intercettazioni - non potranno più fermare. Eppure Angelino Alfano, poco prima di sera, è più che soddisfatto. Anzi è perfino contento. «È andata meglio», dice, «di quanto si potesse prevedere».
Perché, signor ministro?
«L’opposizione aveva chiesto il voto segreto sperando di incunearsi in ipotetiche divisioni all’interno della maggioranza».
E invece?
«Quel che è successo è sotto gli occhi di tutti. Proprio grazie al voto segreto, una ventina di membri dell’opposizione ha votato a favore del disegno di legge».
Un autogol dell’opposizione?
«Non uso questi termini. Dico solo che per noi quei venti voti sono una grande soddisfazione. Dimostrano che sulla necessità di porre un freno all’abuso delle intercettazioni c’è un consenso molto più ampio di quel che si voleva far credere».
Lei vuol dire che questa non è una legge che il governo fa «pro domo sua»?
«Ma certo. È una legge che cerca un punto di equilibrio fra tre diritti: quello all’investigazione, quello all’informazione e quello alla privacy. E cerca finalmente di tutelare anche una categoria di vittime solitamente trascurata, che con il governo non c’entra nulla. Parlo di quei cittadini che si sono trovati sbattuti in prima pagina senza nemmeno essere indagati. Gente che ha visto pubblicati propri colloqui privati che non avevano alcuna attinenza con i reati oggetto delle indagini».
Ma è sicuro che il diritto all’informazione non venga perlomeno ridotto? Che sia ridotto lo dicono anche il sindacato e l’Ordine dei giornalisti, che non c’entrano con l’opposizione.
«A coloro che invocano l’articolo 21 della Costituzione vorrei ricordare che esiste anche l’articolo 15: “La libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili”. Invece sui giornali finiva di tutto. Purtroppo, specie a sinistra, della Costituzione si ama spesso prendere solo ciò che fa comodo».
Veniamo alla sostanza della legge, signor ministro. La contestazione è chiara e grave: per alcuni reati non si potrà più intercettare. Un regalo a molti delinquenti.
«Questo è quello che dicono. Ma non è vero. Riguardo ai reati non è cambiato niente. Abbiamo mantenuto il tetto dei 5 anni previsto dall’attuale codice penale. Non abbiamo ridotto i reati per i quali è lecito intercettare, siamo invece intervenuti su due questioni: la durata temporale delle intercettazioni e il profilo soggettivo dell’intercettato».
Si spieghi.
«Primo: non ci saranno più intercettazioni illimitate nel tempo. Adesso si andava avanti all’infinito, anche senza indizi concreti, nella speranza di scoprire qualcosa. Secondo: non si potranno più controllare persone che non sono indiziate».
Vuol dire che prima si intercettavano persone non indiziate?
«Voglio dire che prima si partiva genericamente da un’ipotesi di reato e si mettevano sotto controllo tutti coloro che venivano ritenuti in qualche modo collegabili con quel reato. Erano una sorta di intercettazioni “a campione”, che coinvolgevano anche persone del tutto estranee ai fatti. Adesso solo chi è gravemente indiziato può essere controllato».
Si obietta che chi è «gravemente indiziato» non ha bisogno di essere intercettato. Se ci sono gravi indizi contro di lui, lo si può già arrestare.
«Lo so, dicono questo. Ma è la classica semplificazione dei giustizialisti, per i quali basta poco per arrestare qualcuno. Dimenticano che per il nostro codice l’arresto è previsto solo se c’è almeno una delle seguenti condizioni: pericolo di fuga; pericolo di reiterazione del reato; pericolo di inquinamento delle prove».
Ma se la legge era già chiara prima, se il numero di reati per i quali è possibile intercettare non è cambiato, perché intervenire con questa riforma?
«Perché le norme erano costantemente violentate. La legge diceva già che le intercettazioni vanno fatte “quando sono assolutamente indispensabili per la prosecuzione delle indagini”. Ma le si faceva a go-go».
Vuol dire che la magistratura abusava di questo strumento di indagine?
«Sì. C’erano abusi incredibili. Ciascun pm decideva in proprio, e in proprio appaltava le intercettazioni a ditte private, senza nemmeno avvisare il procuratore capo. Questo, tra l’altro, ha comportato un buco enorme per le casse dello Stato. Ma lo sa che i costi impazzivano a seconda della ditta privata scelta dal pm? Ci sono intercettazione costate 3,85 euro a “bersaglio” e altre costate 23 euro».
Non bastava fissare un tetto al costo delle intercettazioni?
«Faremo anche questo. C’è stato uno spreco enorme di denaro pubblico. A tutt’oggi, mi risulta un debito di 400 milioni di euro solo per le intercettazioni».
Giuseppe D’Avanzo, su «Repubblica», fa notare però che le intercettazioni si pagano da sole, e fa l’esempio del processo Antonveneta. È costato 8 milioni di euro ma ha permesso allo Stato di recuperare, con il patteggiamento dei 64 indagati, 340 milioni.
«È una semplificazione che porta a falsificazioni. Se ci mettiamo a valutare ogni processo con il rapporto costi-benefici, ci mettiamo su una strada che non sappiamo dove ci porta. Una regolamentazione della spesa è inevitabile. E poi non si possono fare i conti portando ad esempio un singolo processo: ripeto, il saldo totale è di un buco di almeno 400 milioni di euro. Dico “almeno” perché c’è un’infinità di aziende private che vanta crediti ancora da valutare».
Altra questione spinosa, signor ministro. La mafia. Per reati di mafia si può ancora intercettare. Però non lo si può più fare per reati minori che ai mafiosi potrebbero portare. L’usura, ad esempio.
«Di nuovo: rispetto alla legge esistente, non è stato cancellato alcun reato. Si diffondono notizie del tutto infondate. Sulla mafia abbiamo mantenuto una sorta di doppio binario, per cui anche sui reati cosiddetti “a latere” si continuerà come prima».
Le pene per la pubblicazione sui giornali delle intercettazioni sono pesantissime.
«Certe pubblicazioni erano vietate anche prima, ma c’era un’impunità più che diffusa. Verbali usciti o fatti uscire dalle Procure finivano sui giornali senza che nessuno pagasse mai per la fuga di notizie».
Ma lei è sicuro che se una conversazione non contiene notizie di reato non debba essere pubblicata? I cittadini possono avere diritto di sapere, ad esempio, se il tal politico fa una raccomandazione. Non è un reato, ma è un fatto di costume rilevante.
«La libertà di pubblicare resta. Ma è scandita temporalmente. I verbali possono essere resi noti quando si arriva al processo. Non prima. Molta gente è stata distrutta per intercettazioni che poi, nel prosieguo delle indagini, si sono rivelate irrilevanti».
Signor ministro, il rapporto fra questo governo e la magistratura non era già buono - per usare un eufemismo - già prima di questa legge. Si rende conto che adesso è destinato a peggiorare? Non la preoccupa questo fatto?
«Ho letto quel che ha detto l’Associazione nazionale magistrati: ha parlato di una “morte della giustizia”. Ma noi stiamo tenendo fede al programma con cui ci siamo presentati agli italiani. Anche questa legge faceva parte del nostro programma. E gli italiani ci hanno votati anche per questa legge».
Sembra esserci un problema non risolto, fra la politica e la magistratura.
«Mi pare che certi attacchi, come quello dell’Anm di ieri, appalesino un evidente disconoscimento della sovranità popolare e delle funzioni del legislatore. C’è una questione di fondo che i magistrati debbono comprendere. Loro sono soggetti solo alla legge, certo. Ma le leggi le fa il Parlamento. E sono le stessi leggi in nome delle quali i magistrati emettono poi le sentenze».
Lei ha letto il libro di Stefano Livadiotti, «Magistrati, l’ultracasta»?
«L’ho preso ma non l’ho ancora letto».
Parla tra l’altro di una assoluta mancanza di criteri meritocratici nelle carriere; e di una sostanziale impunità per le toghe che sbagliano.
«È ormai abbastanza chiaro, e da tempo, che l’organismo di autocontrollo, o meglio quella che io chiamo la “giurisdizione domestica” dei magistrati, non ha dato grande prova di sé».
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