Gli invincibili (ma sconosciuti) Dolphins del 1972

Dopo la devastante vittoria contro Denver, c'è chi parla di una nuova stagione perfetta di Miami. Eppure nessuno a parte la squadra del 1972 è riuscito a vincere tutte le partite in una stagione. La storia di quella cavalcata mitica e di come, stranamente, ben pochi di quel roster siano diventati davvero famosi

Gli invincibili (ma sconosciuti) Dolphins del 1972

Uno dei fenomeni più curiosi nello sport americano è quello che viene definito recency bias. Le vittorie del momento, in pratica, sono considerate sempre migliori di quanto visto in passato. Le infinite discussioni tra i sostenitori di questo o quel grande campione sono un chiarissimo caso di come sia impossibile trovare una via di mezzo. Quando domenica sera i Miami Dolphins hanno inflitto una sconfitta memorabile ai malcapitati Denver Broncos, però, la mente di tutti gli appassionati di football è tornata indietro nel tempo. Non alla squadra clamorosa ma sfortunata degli anni ‘80, quando il mitico Dan Marino riuscì in qualche modo a diventare il miglior quarterback della storia a non aver mai vinto un Super Bowl, ancora più indietro.

Appena finita la partita, è bastata un’occhiata al punteggio per iniziare a parlare di un’altra stagione perfetta, di un’inevitabile corsa verso il terzo Super Bowl della franchise della Florida. Paragoni certo azzardati, visto che nessuno è mai riuscito a ripetere la memorabile impresa dei Dolphins del 1972, unici nella storia della Nfl a vincere tutte le partite in una stagione, dall’opening day alla finalissima. Ecco perché questa settimana “Solo in America” vi riporta indietro nel tempo per raccontarvi la storia degli “invincibili” di Don Shula e di come la loro incredibile impresa sia stata quasi ignorata per decenni.

L’inizio della stagione perfetta

Il panorama del football professionistico si nutre di leggende metropolitane, tanto affascinanti quanto, spesso e volentieri, inventate di sana pianta. Una delle più dure a morire è quella che racconta come, ogni volta che una squadra Nfl perde la prima partita dopo un inizio di stagione perfetto, alcuni Dolphins del 1972 stappino una bottiglia di champagne per celebrare un altro anno del loro mitico record. Come racconta un lungo ed interessante profilo pubblicato sul sito ufficiale della Nfl per celebrare i 50 anni dalla stagione perfetta, le cose non stanno proprio così. La leggenda, però, avrebbe un fondo di verità: nel novembre 1991, quando i Washington Redskins persero contro Dallas dopo undici vittorie consecutive, tre ex di quella squadra mitica, Anderson, il QB Griese e il linebacker Buoniconti, stavano nello stesso quartiere a Coral Gables.

Due giorni prima della fatidica partita, decisero che in caso di vittoria dei Cowboys, avrebbero festeggiato nel vialetto di uno di loro. Anderson racconta come “uscii di casa con una bottiglia di champagne. Io, Nick e Griese, brindammo alla memoria di quella stagione irripetibile. L’abbiamo fatto solo quella volta, però. È da parecchio che non facciamo niente del genere”. Qualcosa del genere successe nel 1998, quando Anderson e qualche compagno stapparono una bottiglia quando i Denver Broncos persero la loro prima partita ma, da allora, non è più successo.

La cosa veramente curiosa è come la stagione perfetta fosse arrivata senza che nessuno veramente si aspettasse niente del genere. I Dolphins, nati nel 1966, erano quasi una barzelletta nella Afl ma le cose cambiarono quando, dopo il merger con la Nfl, la proprietà decise di strappare a suon di milioni il grande tecnico Don Shula dai Baltimore Colts. Quello che molti considerano il miglior allenatore di tutti i tempi trasformò una squadra perdente in una macchina perfetta, raggiungendo il primo Super Bowl al secondo anno a Miami. Le cose, però, non andarono affatto come previsto: quando si trovarono di fronte i Dallas Cowboys, persero malissimo, 24-3. Quando la città di Miami pensò di organizzare una parata per celebrare la finale, Shula andò su tutte le furie: “Niente parate per chi ha perso. Risparmiate i soldi per quando vinceremo”.

Il tecnico, già dal volo di ritorno, parlò con ognuno dei suoi giocatori: il suo messaggio era semplice ed efficace:“Ricordate quanto fa male perdere. L’anno prossimo il Super Bowl lo vinceremo noi”. Per settimane Shula fece rivedere il filmato di quella sconfitta devastante ogni singolo giorno: voleva che nessuno dei suoi giocatori dimenticasse presto quella sensazione. Invece di lodare i progressi fatti, il tecnico prendeva a male parole i giocatori, ricordandogli come avessero sprecato l’occasione della vita. Per Shula, uscito sconfitto dal Super Bowl III con Baltimora, vincere quello che sarebbe diventato il Vince Lombardi Trophy era diventato una vera ossessione.

Il trionfo del “Vecchio”

I giochi mentali di coach Shula sembrarono funzionare alla grande, tanto da spingere i Dolphins ad una partenza perfetta, un 4-0 piuttosto netto, a parte lo spavento contro i Vikings alla terza giornata. A conquistarsi le prime pagine, le corse di Csonka ma anche quella che sarebbe diventata famosa come la “No-Name Defense”, un reparto eccezionale nonostante non avesse grandi nomi. Griese era il conduttore d’orchestra, reduce da due stagioni memorabili ma Shula aveva anche voluto un QB più esperto, il 38enne Earl Morrall, come riserva. Lo stipendio pesante, da 90000 dollari all’anno, uno sproposito all’epoca, aveva fatto sensazione ma alla fine l’azzardo di Shula pagò. Nel primo quarto della partita contro i Chargers, infatti, Griese si ruppe la tibia ed ebbe una lussazione alla caviglia, costringendo il tecnico a mettere in campo quello che i compagni di squadra chiamavano, con poca fantasia, “il Vecchio”.

Non lo sapevano ancora ma l’ex quarterback di Baltimora avrebbe vissuto una stagione memorabile, guadagnandosi il titolo di giocatore dell’anno della Afc. Il fullback Larry Csonka, uno dei migliori di sempre, racconta come: “sentii rompersi la gamba di Griese, uno dei momenti più duri della mia carriera. Non fu semplice riprendersi dopo una botta del genere”. Tim Robbie, figlio dell’ex proprietario dei Dolphins, era uno degli assistenti di Shula e rimase di stucco quando Morrall non fece una piega e scese in campo: “Earl era calmissimo. Si sistemò l’elmetto, non disse una parola e iniziò a giocare, come se fosse la cosa più normale al mondo. Quando non sbagliò niente, nonostante tutti aspettassero un suo errore, fu fondamentale per dare coraggio alla squadra”.

Earl Morrall 1976 WIkimedia
Fonte: Wikimedia Commons

Earl the Pearl”, secondo Csonka, era perfetto per i Dolphins: “Era tutto quello che ci serviva. Non parlava molto ma era tosto come pochi altri in campo. Non faceva le cose di testa sua, si fidava del nostro giudizio”. Quando gli misero nello spogliatoio una sedia a dondolo accettò lo scherzo di buon grado. A 40 anni aveva visto di tutto nel football, niente lo disturbava. Aveva davanti l’opportunità di una vita e non se la sarebbe lasciata sfuggire. Nessuno pensava davvero di riuscire a chiudere la stagione senza sconfitte ma, alla fine, ci volle un pizzico di fortuna. Se contro i Vikings molti se l’erano presa con le decisioni degli arbitri, quando Buffalo si presentò all’Orange Bowl ci volle un errore dei Bills per garantire a Miami la vittoria. Manny Fernandez strappò il pallone alla difesa prima che riuscissero a passare l’ovale al grande O.J. Simpson: senza quel touchdown la stagione perfetta sarebbe finita prima di iniziare. La vigilia di Natale, quando nel Divisional Round arrivarono i Browns, fu una vera e propria battaglia ma a fare la differenza fu una giocata di un giovane, Charlie Babb. Il rookie riuscì a bloccare un punt e segnare un touchdown: quella meta dello special team consentì a Miami di accedere alla finale di conference. Il fatto che la No-Name Defense avesse messo cinque intercetti aiutò non poco. Al timone, come sempre, il Vecchio, quel giocatore sul quale nessuno avrebbe scommesso un centesimo.

Gli Steelers e l’apoteosi del Super Bowl

Quando i Dolphins viaggiarono fino a Pittsburgh per l’Afc Championship Game, tutto sembrava giocare contro a Miami. L’attacco degli Steelers era riuscito subito a segnare un touchdown ma grazie ad un fake punt Miami era riuscita a mettersi in posizione ideale per pareggiare. Morrall trovò nella end zone Csonka, ma per il resto del primo tempo furono le difese a dominare. Visto che Griese era nel frattempo guarito, Shula decise di far tornare in campo il quarterback titolare. Alla fine si rivelò ancora la scelta giusta. Gli Steelers, che la settimana prima avevano avuto una delle giocate più famose di tutti i tempi, la celebre Immaculate Reception, furono sorpresi quando il meteo della Pennsylvania decise di dare una mano ai Dolphins. Quel giorno a Pittsburgh, c’era un bel sole e faceva quasi caldo. Griese, che aveva recuperato in pieno dall’infortunio, ci rimase male quando fu costretto a sedere ancora in panchina ma, alla fine, capì perché Shula aveva scelto Morrall: “Coach Shula disse che era stata la decisione più difficile della sua vita ma io stavo bene, ero fresco, non avevo così tante partite sulle spalle. Mi aspettavo che mi mettesse in campo ma volle dare un’ultima opportunità ad Earl”. Col quarterback titolare in campo, la macchina perfetta di Miami tornò a macinare punti, portando a casa il biglietto per il Super Bowl. Alla fine, però, la sconfitta fece bene anche agli Steelers: il grande cornerback Mel Blount dice che “imparammo come, nelle partite importanti, gli errori si pagano caro. Le squadre di coach Shula erano una macchina perfetta, trovavano sempre il modo di avanzare, facendo a pezzi le difese. Quella sconfitta ci insegnò come vincere”.

Incredibilmente, nonostante avessero messo in cascina sedici vittorie, i Dolphins erano dati sfavoriti rispetto a Washington nel Super Bowl. La cosa non passò affatto inosservata a Miami: il defensive end Vern Den Herder, che mise un sack nell’ultimo snap della finale, disse che “ci sembrò una mancanza di rispetto. Ci servì per dare il massimo in campo”. Quel giorno al Los Angeles Memorial Coliseum non ci fu partita: i Dolphins segnarono due touchdown nel primo tempo e dominarono in lungo e in largo la finale. A rovinare quello che sarebbe stato l’unico shutout della storia del Super Bowl, ci si mise una giocata memorabile, quella che a Miami è conosciuta come Garo’s Gaffe.

Nel finale dell’ultimo quarto il kicker Garo Yepremian si presentò dalle 42 yards per un field goal che avrebbe chiuso la stagione da 17 vittorie con un 17 a zero. Gli dei del football, però, hanno uno strano senso dell’umorismo: il calcio fu troppo basso e la difesa lo respinse. Garo, chissà perché, provò a riprendere l’ovale e lanciarlo in avanti ma la palla gli scivolò dalle mani. Il cornerback dei Redskins Mike Bass lo prese al volo e segnò l’unico touchdown per Washington, cosa che fece andare su tutte le furie i Dolphins. Alla fine, però, furono in grado di riderci sopra: Shula confessò che aveva rivisto quella giocata almeno cento volte. È ancora uno degli errori più divertenti della storia della Nfl.

Pochi ricordano la prestazione clamorosa di Jake Scott, che grazie ai suoi due intercetti, fu uno degli unici due safety a vincere il trofeo di Mvp nella finalissima. A vincere quel giorno fu la difesa, quella che tutti avevano preso in giro per essere composta da sconosciuti: fu grazie a loro che Miami guadagnò il suo primo Super Bowl. Il più felice di tutti? Don Shula, portato in trionfo dai suoi giocatori. La maledizione era finita: il fatto che arrivasse alla fine di una stagione perfetta contava poco o niente. Tutti i Dolphins del ‘72 hanno memorie di quel giorno: Griese ricorda di essersi fatto un pisolino sul bus mentre andavano allo stadio, Bass si prenderebbe a pugni per non aver impedito a Garo di combinarla grossa e tanti altri ricordi. Nessuno, però, dimenticherà mai quello che Carl Taseff, uno degli assistenti di Shula, scrisse sulla lavagna nello spogliatoio: “Perfect Season. The Best Team Ever”. Ci sarebbero voluti anni perché quei Dolphins si rendessero conto di quello che avevano fatto. Forse aveva ragione lui, forse quella squadra è davvero la migliore di tutti i tempi.

Una vittoria quasi dimenticata?

Nonostante nessuno da allora sia mai riuscito a ripetere l’impresa di quei Dolphins, la sensazione è che questa mitica vittoria non sia stata celebrata quanto meriterebbe. Certo, otto di quei giocatori di Miami sono nella Hall of Fame ma ci sono voluti parecchi decenni prima che il resto di quel memorabile roster fosse festeggiato a dovere. Come succede spesso, ogni volta che una squadra si avvicina ad eguagliare il record, arriva l’attenzione della stampa: quando nel 2007 i Patriots di Tom Brady arrivarono al Super Bowl XLII dopo ben 18 vittorie, tutti rimasero di stucco quando Eli Manning ed i Giants rovinarono la stagione perfetta di New England. A ridere, ancora una volta, i Dolphins del 1972: gli unici abitanti di Perfectville rimangono ancora loro. Nell’agosto 2013, quando il presidente Obama li invitò alla Casa Bianca, ammise che, nonostante sia un tifoso di Chicago, pensa che siano loro i migliori di sempre, ancora migliori dei leggendari Bears del 1985.

Obama Griese 2013 ANSA

Nel 2019, per celebrare il centenario della Nfl, un panel di esperti votò i Dolphins del 1972 come la squadra del secolo, cosa che fece ridere Larry Csonka: “Sono stanco di sentire gente che dice che ci hanno nominato i migliori di sempre. Nessuno ci ha regalato niente. Ci siamo presi tutto da soli. Sapevamo già di essere i numeri uno: nessuno ha mai fatto una stagione perfetta”. Den Herder, invece, fu quasi sorpreso: “subito dopo la nostra vittoria, la gente si dimenticò subito di noi. Non avevamo la personalità giusta, c’era sempre una squadra più alla moda di noi. Alla fine, però, si sono accorti anche loro di quello che avevamo fatto”. La risposta di Fernandez a chi gli ricorda come ebbero la fortuna dalla loro parte o come la schedule non fosse così difficile è emblematica: “sono solo chiacchiere. Abbiamo vinto. Fatevene una ragione.

Anderson, invece, ammette che tutti tengono parecchio al loro record: “Se qualcuno dovesse riuscirci, andremmo a stringergli la mano. Devono giocare più partite, quindi ora è più difficile. Quando i Patriots arrivarono a 35 secondi dal record eravamo tutti un po’ nervosi. Quando i Giants riuscirono a batterli, festeggiammo come pazzi”. Chi non li ha mai dimenticati, invece, sono i tifosi della Florida. Tony Segreto, telecronista che segue le partite dei Dolphins da una vita, dice che “se prendeste tutti i giocatori di Miami oggi e li metteste in una stanza, assieme ai veterani della squadra del 1972 ancora in vita, i veri tifosi dei Dolphins andrebbero tutti da loro. Sono gli unici ai quali chiederebbero un selfie o un autografo. Almeno a Miami, sono ancora delle rock star, delle vere e proprie leggende”.

C’è vita dopo una stagione perfetta?

Di quella stagione leggendaria si sono dette tantissime cose, tanto da riempire libri su libri ma, forse, la storia più bella è quella della No-Name Defense, capace di trasformare un soprannome crudele in una medaglia da portare con orgoglio. Alla fine, però, tutti gli esperti di football sono stati costretti ad ammettere che, forse, quella difesa merita di essere nella lista delle migliori di tutti i tempi. Quando il sito della CBS Sports fece uno dei soliti sondaggi ad effetto, tanto per avere qualcosa di cui parlare nella off-season, il risultato sorprese molti. I Dolphins del 1972 finirono al terzo posto nella classifica, sconfitti dai Bears del 1985 e dagli Steelers del 1975. A Miami si fanno quattro risate: i Bears, quelli stessi che vennero sconfitti 38 a 24 all’Orange Bowl dai Dolphins di Joe Marino? Ci sono ragioni statistiche dietro questa scelta, dal fatto che Chicago nel 1985 riuscì a tenere a zero nella post-season sia i Giants che i Rams prima del devastante 46-10 contro i Patriots nel Super Bowl. La cosa interessante è come Miami riuscì a ripetersi anche nel 1973, anno nel quale la difesa fu ancora più decisiva, vincendo per la seconda volta il Super Bowl contro i Minnesota Vikings. A fare la differenza, però, il fatto che di quel gruppo mitico solo un giocatore sia riuscito ad entrare nella Hall of Fame.

La vita dopo il football è stata piuttosto generosa con i Dolphins: c’è chi ha fondato una charity contro la paralisi, Anderson è stato eletto al senato della Florida, Newman è diventato un giudice mentre Csonka si è costruito una carriera in televisione, diventando popolarissimo in tutta America. Altri, invece, si sono reinventati come allenatori o telecronisti ma i 30 sopravvissuti di quel mitico roster si incontrano ancora regolarmente, almeno una volta ogni cinque anni. Quando si ritrovano, è come se il tempo non fosse mai passato. Il running back Mercury Morris dice che ad accomunarli è l’aver vissuto un’esperienza unica: “è come chi è andato sulla Luna. Solo chi c’è stato sa cosa voglia dire. Nessun altro sa cosa voglia dire vivere dopo una stagione perfetta”. Fernandez dice che la popolarità lo ha aiutato nella carriera di assicuratore, garantendogli una vecchiaia tranquilla. Anderson ammette che, ogni volta che si ritrovano, fa male scoprire che sono sempre meno: “quando coach Shula è morto, abbiamo provato a sorridere, pensando che non sarebbe più venuto ad urlarci in faccia ma eravamo davvero tristi”.

Qualche tempo fa, uno dei giornali più seguiti della Florida, il Sun-Sentinel, ha raccolto in un articolo cosa è successo ad ognuno dei 52 membri dei Dolphins del 1972 e ci si trova davvero di tutto. Il safety Dick Anderson è ancora un assicuratore, Babb ha una ditta di costruzioni, il linebacker Ball passò dagli invincibili Dolphins ai Buccaneers del 1976, che chiusero una stagione senza una sola vittoria, prima di allenare nelle high school della Florida del Sud. Den Herder è tornato in Iowa ed ora fa il contadino mentre il tackle Evans si è dato alla religione, diventando un pastore a Seattle. Bob Griese, uno dei pochi ad essere entrato nella Hall of Fame, è un conosciuto telecronista mentre il running back Jenkins è diventato un magistrato a Boston. Il cornerback Johnson, invece, si reinventò come pompiere ed ora vive a Detroit.

Alcuni sono morti giovani, altri continuano a raccontare le storie di quella stagione indimenticabile, anche Garo Yepremian, il kicker che ha saputo trasformare una giocata disastrosa al Super Bowl in un modo per motivare gli altri. Nessuno di loro dimenticherà mai quella stagione irripetibile quando, contro tutto e tutti, riuscirono a diventare delle leggende viventi.

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