A volte il miglior modo di combattere è smettere di farlo. Lo hanno capito le ragazze d'oro: in India campionesse olimpioniche ed atlete della squadra nazionale di lotta libera non stanno più sfidando le avversarie, ma la loro Federazione nazionale e il sistema di potere del premier Modi. Da mesi protestano, scioperano e marciano contro l'impunito e potente Brij Bhushan Sharan Singh, presidente della Federazione sportiva indiana di lotta libera, accusato da molteplici sportive di abusi sessuali, stupri e molestie. Puntano l'indice soprattutto due olimpioniche, Bajrang Punia e Sakshi Malik, insieme a Vinesh Phogat. Più che una rara fuoriclasse, in India la Phogat è un'icona: prima medaglia d'oro indiana dei giochi del Commonwealth, poi campionessa del mondo. “C'è stata una grave ingiustizia. Noi abbiamo dedicato le nostre vite al nostro Paese” ha scritto l'atleta che con le compagne di squadra, ora, avverte la Federazione: se non ci sarà giustizia, non ci saranno nemmeno più medaglie perché loro non gareggeranno alle competizioni. Le ragazze indiane non combatteranno più, se l'India non combatte per loro.
New Delhi ama la lotta sul tappeto e gli ori che sportivi e sportive conquistano per la bandiera ogni anno. Quando la lottatrice Pooja Gehlot scoppiò in lacrime davanti alle telecamere per essere salita solo sul terzo gradino del podio delle Olimpiadi di Tokyo, fu addirittura Modi a consolarla pubblicamente davanti ai suoi 89 milioni di follower: “La tua medaglia merita celebrazioni, non apologie”.
Pooja, your medal calls for celebrations, not an apology. Your life journey motivates us, your success gladdens us. You are destined for great things ahead…keep shining! https://t.co/qQ4pldn1Ff
— Narendra Modi (@narendramodi) August 7, 2022
Oggi non più in sordina, la protesta delle lottatrici è iniziata nel 2022: a inizio gennaio 2023 sono però cominciate le marce, a maggio hanno piantato le tende per occupare la strada che porta alla sede del Wfi, Wrestling Federation India. Chiedono le dimissioni e arresto immediato del presidente che nega ogni accusa, ma le evidenze dei suoi abusi che vanno avanti da decadi sono arrivate anche al governo. Davanti alle denunce, il Comitato olimpico indiano, come le altre autorità, ministro e ministero dello Sport compresi, è rimasto muto e inane. "Il governo di Modi è sempre dalla parte degli atleti" si è limitato a dichiarare il capo del dicastero Anurag Thakur. Nonostante la Federazione abbia creato una commissione d'indagine, nessun passo avanti finora è stato fatto e invece di Singh, sono state ammanettate le ragazze: solo qualche giorno fa, il 28 maggio scorso, mentre il premier indiano inaugurava un nuovo edificio del Parlamento, la polizia le ha arrestate mentre marciavano a New Delhi con centinaia di altre donne, nonostante le reprimenda della Uww, United world wrestiling world.
Tutti uniti per le ragazze che non combattono più per pubblico, ma per loro stesse: per supportare le colleghe ha smesso di combattere pure Bajrang Punia, lottatore della squadra maschile che alle ultimi olimpiadi di Tokyo ha conquistato il bronzo. Vinesh intanto continua a guidare la protesta e non abbasserà la testa: come tutti i membri della sua famiglia, la ribellione ce l'ha nel sangue.
Una scossa tellurica al sistema patriarcale che vige dentro e fuori le palestre indiane nello stato dello Haryana l'ha data, prima di lei, suo padre Mahavir, lottatore della domenica che ha iniziato allo sport non solo Vinesh, ma tutte le sue sei figlie e due nipoti (orfane di suo fratello).
I loro sacrifici sul tappeto sono diventati finzione su pellicola: milioni e milioni di dollari ha incassato Dangal, il colossal che Bollywood ha dedicato alla dinastia di combattenti, che alla fine, le lotte, sopra o lontano dal tappeto, hanno finito per vincerle sempre tutte.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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