Olimpiadi, il pasticcio dei pugili trans una minaccia per la sicurezza delle atlete

La decisione di far partecipare al torneo olimpico femminile due atleti geneticamente maschi non è solo una questione politicamente controversa ma un vero e proprio rischio per l'incolumità delle atlete

Olimpiadi, il pasticcio dei pugili trans una minaccia per la sicurezza delle atlete
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Le Olimpiadi parigine, quelle più “eque ed inclusive di tutti i tempi” assomigliano sempre di più ad un pasticcio di proporzioni bibliche. La notizia dell’inclusione di due atleti geneticamente maschi nel torneo olimpico della boxe femminile ha spalancato il vaso di Pandora, rinfocolando le accuse di chi teme che sull’altare della nuova religione woke sia sacrificato non solo il buonsenso ma addirittura la sicurezza delle atlete. Domani alle 12.20, la venticinquenne napoletana Angela Carini dovrà affrontare l’algerino Imane Khelif, squalificato dai mondiali di boxe per aver fallito il test genetico. Molti esperti di boxe ma anche gli stessi vertici dello sport italiano, incluso il Ministro per lo sport e i giovani Andrea Abodi, temono che non sia solo una decisione profondamente ingiusta ma che possa addirittura mettere a rischio l’incolumità dell’atleta azzurra.

“Niente sicurezza ed equità per Angela”

Le parole del Ministro Abodi, nonostante la comprensibile cautela, sembrano voler riportare la tematica nei binari dello sport, soprattutto in quelli che, fino a non molto tempo fa, erano considerati elementi chiave dell’attività agonistica: l’equità e la sicurezza. Trovo poco comprensibile che non ci sia un allineamento nei parametri dei valori minimi ormonali a livello internazionale, che includa quindi europei, mondiali e Olimpiadi. Nell’evento che rappresenta i più alti valori dello sport si devono poter garantire la sicurezza di atleti e atlete, e il rispetto dell’equa competizione dal punto di vista agonistico. Domani, per Angela Carini non sarà così.

Andrea Abodi Empoli 2024

Come a prevenire le uscite dei massimalisti del gender, il ministro prova a ricordare come lo sport abbia regole diverse a quelle di tanti altri ambiti del vivere civile: “Quello delle atlete e degli atleti transgender è un tema che va ricondotto alla categoria del rispetto in tutte le sue forme, ma dobbiamo distinguere la pratica sportiva dall’agonismo che deve poter consentire di competere ad armi pari, in piena sicurezza”. Il problema, in fondo, è un altro: agendo così si rischia di sacrificare all’inclusività la stessa sicurezza delle atlete. È del tutto evidente che la dimensione dell’identità di genere in ambito agonistico pone il problema delle pari opportunità o delle stesse opportunità; non a caso, tante discipline sportive hanno posto dei vincoli per le atlete e atleti transgender necessari per poter permettere di gareggiare alle stesse condizioni. In questo caso assistiamo a un’interpretazione del concetto di inclusività che non tiene conto di fattori primari e irrinunciabili.

Una questione di sicurezza

Nonostante i deliri dei cultori della nuova religione woke, la biologia non lascia spazio ad interpretazioni. Il pugno di un atleta biologicamente maschio che abbia passato la pubertà è in media più potente di circa il 160% rispetto a quello di un’atleta donna. Per non parlare poi della massa muscolare e della capacità polmonare, che anche a parità di peso rendono un combattimento tra uomini e donne fondamentalmente ingiusto. Il problema è che, specialmente nelle classi di peso più elevate, chi entra nel ring rischia infortuni anche gravi. Angela Carini è una tipa tosta, cresciuta in palestra, seguendo la passione del padre ma affrontare un uomo in un combattimento vero è tutta un’altra storia. Brianda Cruz, atleta messicana tra le ultime ad affrontare l’algerino sul ring, non ha avuto problemi ad ammettere di aver rischiato la vita.

Subito dopo la sconfitta in un torneo messicano ebbe a dire: “I suoi colpi mi hanno fatto molto male, non credo di essermi mai sentita così nei miei 13 anni da pugile, né nei miei sparring con gli uomini. Grazie a Dio quel giorno sono uscita dal ring sana e salva, ed è bello che finalmente se ne siano accorti”. Dopo anni passati a fare di tutto per limitare i rischi legato alla nobile arte, a minimizzare gli infortuni seri o addirittura fatali, questa decisione grida vendetta al Cielo.

Dopo aver lavorato duramente per rendere la boxe più sicura e riportare questo sport ai livelli di popolarità che godeva nell’epoca eroica, questa sparata ha il sapore della beffa. Le offese alla religione in una cerimonia d’apertura sgangherata sono una cosa ma quando si rischia di sacrificare sull’altare dell’ideologia la salute delle atlete si è andati davvero troppo oltre.

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