Bottom significa che più in basso di così non puoi mica scendere. Black bottom è la dizione completa: trattasi di un sobborgo di Detroit dimenticato dal fato, unicamente abitato da popolazione nera, intricato come una matassa di guai. Papà lavora sei giorni su sette per stappare le fognature cittadine. Mamma raggranella dieci dollari l'ora. E lui, che si chiama Walker Smith ed è nato il 3 maggio del 1921 in uno sparuto angolo della Georgia, ad Ailey, deve cercare di aiutare per quello che la sua tenera età consente.
Il primo impiego utile diventa una palestra visiva. Fa da assistente per il giovane pugile Joe Luis, futuro astro a stelle e strisce della boxe. Trascina con sé vestiti e guantoni, Walker, seguendolo pressoché ad ogni incontro. Fungere da factotum forse non è edificante, ma imprime in fondo alle sue pupille quelle braccia mulinanti, la cadenza delle gambe, la capacità di ovattare gli strilli della folla.
Un apprendistato rapido, perché mamma decide di andare a cercare fortuna a New York, e allora tocca fare i bagagli. Anche qui il ragazzino tenta di rendersi utile: conquista una porzione di marciapiede e si mette a lustrare scarpe, salvo poi realizzare che il guadagno è davvero risibile. Allora incrementa improvvisando spettacoli di danza. Ancora non può saperlo, ma quelle sequenze di passi improvvisati gli torneranno enormemente utili nell'immediato futuro.
Appena riesce, mette piede in una palestra cittadina e chiede di allenarsi per salire sul ring. Non avrebbe ancora l'età per farlo, ma il talento che manifesta è talmente acuto da indurre gli organizzatori ad uno stratagemma. Prenderà in prestito le generalità del compagno d'allenamento Ray Robinson per iniziare a combattere. Quel nome è tutt'altro che provvisorio: non se lo staccherà più di dosso. Però non è ancora completo. A cesellarlo, consegnandolo alla futura immortalità, ci penserà il manager George Gainford: You're boxing is sugar, gli dirà dopo essere rimasto estasiato al termine di un match. La tua boxe è zucchero. E all'ex Walker Smith serve meno di un amen per trasformarsi in Sugar Ray Robinson.
Si apre così una carriera monumentale. Il pugile dai guantoni zuccherati si infila nel circuito dilettantesco e lo percuote con grazia. Sul ring danza rapido e imprevedibile come su quei marciapiedi newyorchesi. Raffinato nei movimenti, saldo nell'incassare, letale nelle combinazioni. Troppa roba, decisamente, per i disgraziati che oscillano sulle soglie del professionismo. Sugar li miete tutti, anzi, li tritura: 85 vittorie, di cui 69 per ko.
Esordisce allora nel professionismo, subito battezzato dal salotto che più incute soggezione: il Madison Square Garden. La notte del 4 ottobre 1940 stende la prima di una impressionante serie di vittime, lo sfortunato Joe Echevarria. E ben presto comprende che il balzo da compiere è ancora maggiore, perché doma qualsiasi avversario con colpi allo zucchero soltanto per il suo personale brand, mentre per tutti quegli altri sembrano macigni dritti in faccia.
Molla i leggeri e sale ancora di peso, per duellare contro avversari che possano impegnarlo. All'inizio deve prenderci le misure, ma quando indovina il ritmo sfascia anche questa categoria. Fino a quando non incontra qualcuno degno del suo calibro. Jake Lamotta, la sua nemesi. La boxe aristocratica di Sugar si scontra un'infinità di volte con la feroce determinazione dell'italo americano. Ray lo sconfigge ai punti, ma l'altro lo spedisce ko nella rivincita. Un'onta che verrà smussata dai successivi incontri e definitivamente lavata nel sangue del Valentine's massacre, la grande mattanza inflitta da Sugar a Lamotta.
In mezzo c'era stata la guerra. Lui, come molti altri pugili dell'epoca, era stato chiamato ad esibirsi nelle basi militari americane, per rinfocolare l'entusiasmo dell'esercito. Ma quando gli era stato chiesto di salpare per fare altrettanto sul fronte, si era dileguato. Il grande vascello era partito senza che di lui si avessero notizie. Era durata per cinque giorni, finché lo avevano ritrovato disteso in un ospedale militare, finalmente destato - stando alla sua versione - dai postumi di una brutta caduta dalle scale. Gran parte della stampa gridò allo scandalo, all'astuto stratagemma per farla franca. Ad ogni modo la guerra finì e le sue vittorie resettarono l'incidente.
Poi però, in una fresca notte del giugno 1947, Ray fece un incubo. Si svegliò, la fronte madida, i brividi lungo la schiena: aveva sognato di uccidere Jimmy Doyle, il pugile che avrebbe dovuto affrontare la sera dopo per difendere il titolo dei pesi welter, conquistato un anno prima. Sconvolto dalla premonizione, si rifiutò inizialmente di combattere. Il consulto con alcuni uomini di chiesa lo persuase a salire lo stesso sul ring. All'ottavo round assestò un tremendo gancio destro al suo avversario, che collassò. Morì poche ore dopo in ospedale. Distrutto, Sugar pensò di smettere. Venne a sepere che Doyle avrebbe voluto comprare una casa alla madre, e gliela acquistò lui. Non era comunque abbastanza per lenire quel dolore squassante.
In seguito combattè in Europa, dove - secondo la leggenda - accontentò torme di corteggiatrici. Perché c'era anche un altro lato di Ray. Tanto imperterrito nello sport - rifiutò più volte coraggiosamente i tentativi della mafia italo americana di truccare gli incontri - quanto marito di più mogli e più volte fedifrago, padre discutibile, imprenditore svagato. Circuito da televisioni, registi e attori, lasciò la boxe nel 1952 per tentare di diventare una celebrità. Vi fece presto ritorno soltanto perché finiva ciclicamente sul lastrico. Conquistò di nuovo il titolo dei pesi medi, stappò un duello nuovo con l'italo americano Carmen Basilio e poi si trascinò a combattere fino al 1965.
Quando se ne andò in un placido aprile californiano del 1989, tifosi e avversari avvertirono un retrogusto amaro in fondo al palato.
Di lui Muhammad Alì disse: "Sugar Ray Robinson è stato pound per pound il più grande di tutti i tempi. Era il re, il maestro, il mio idolo”. Quanta gente si è leccata le labbra con tutto quello zucchero.
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